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Difficile. Difficilissimo a tutt'oggi il rapporto tra le italiane e la politica. Non perché - come lo stereotipo diffuso vorrebbe far credere - le donne della Penisola se ne disinteressino. No, tutt'altro. Il problema vero è che la politica, appannaggio maschile da tempo immemorabile, fatica a staccarsi dalle posizioni acquisite. Dati alla mano, le italiane sono appassionate di politica tanto quanto lo sono gli uomini. Basti un esempio. Il 2 giugno 1946, chiamate per la prima volta ad esercitare l'elettorato attivo (erano il 52,2% del totale degli aventi diritto) e passivo, le donne sconfessarono nella pratica paure, incubi e luoghi comuni. L'89% delle aventi diritto si presentò infatti al voto, contro l'89.2% dell'elettorato maschile. Se le votanti del Nord furono le più numerose (89.7%), le donne del Sud e delle isole votarono più degli uomini (rispettivamente 88.2% contro 86.7%; 86.2% contro 84.8% in Sicilia; 87.3% contro 84.4% in Sardegna). Le elettrici non furono le sole a dare ottima prova di sé: le candidate non furono da meno. Su 556 deputati, infatti, risultarono elette 21 donne, dato decisamente contenuto a prima vista, ma invece estremamente importante se opportunamente contestualizzato. Considerando infatti che la Democrazia cristiana, il Partito comunista e i socialisti avevano presentato solo il 6,5% di candidature femminili, le elette erano state più di metà (3,7%). E, sicuramente, erano molto più degli uomini, se posti in rapporto con il numero dei candidati. Se fin dall'unificazione la politica ha fatto di tutto per relegare al suo esterno le donne italiane, quando poi le donne sono diventate cittadine a tutti gli effetti (fu il decreto Bonomi del 30 gennaio 1945 a dar loro il diritto di voto e il decreto del marzo 1946 quello di essere votate), sono stati “concessi” loro solo ambiti ritenuti muliebri per definizione. In oltre sessant'anni, infatti, le poche che hanno ricoperto ruoli politici hanno continuato ad occuparsi quasi esclusivamente dei campi tradizionalmente appartenenti al femminile, come la famiglia, l'istruzione, l'assistenza e la cura. Le eccezioni sono state solo tre: la Presidenza della Camera affidata a Nilde Iotti, Susanna Agnelli alla guida del Ministero degli Esteri e Rosa Russo Iervolino agli Interni. Eppure, sin dal 1861 la passione politica ha segnato la vita di tantissime italiane. In un primo momento è stata prevalentemente quella che la storica Annamaria Buttafuoco definì, in un celebre saggio, La filantropia come politica. Poi è stata la passione politica propriamente detta esercitata all'interno dei partiti (come per la socialista Anna Kuliscioff), nel dialogo costante con la politica pur stando al di fuori di ogni collocazione (come per Anna Maria Mozzoni), nel rapporto con la Chiesa e il neo-nato Partito Popolare (si pensi ad Angela Guidi Cingolani). Le fila con il tempo si andarono ad ingrossare (Teresa Noce, Luciana Viviani e Tina Anselmi, tra le altre), per arrivare a quella che forse è la politica italiana più nota, la socialista Lina Merlin. Che, tra l'altro (e probabilmente non a caso) aveva un rapporto pessimo con il suo stesso partito. Tra i vari partiti italiani, però, quello che ha dato maggiore spazio alle donne – anche per le campagne portate avanti – è stato il Partito radicale. Fondato nel 1955, esso ha visto grandi nomi come quelli di Adelaide Aglietta, Adele Faccio e Emma Bonino. Ad oggi, comunque, come si diceva, il rapporto tra le italiane e la politica attiva è ancora molto complesso. Non appartiene – malauguratamente – ad un'altra epoca la testimonianza che, a distanza di anni, ha dato Bianca Bianchi. Ella raccontò infatti che ai tempi della Costituente le fu chiesto "di firmare una lettera di dimissioni preparata in antecedenza, per cedere il posto a un socialista che ci sventolava sempre davanti al naso la tessera di anzianità di iscrizione al partito, come se l'anzianità fosse sinonimo di intelligenza”. Di tessere in bianco (variamente intese) le donne italiane ne firmano ancora troppe.
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