Dall'Unità d'Italia alla prima guerra mondiale (1861-1914)
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1863 - 1886 La «povera, infelice Italia Donati, maestra sventurata», come lei stessa si definiva, alla stregua di molte colleghe era stata spinta ad intraprendere la “carriera” scolastica dalle misere condizioni della famiglia. Si era dunque trasferita in un piccolo paese della campagna pistoiese, Porciano, dove però era stata costretta a subire la corte pressante del primo cittadino, che le aveva imposto di vivere in una casetta attigua alla propria. A seguito delle maldicenze di cui era stata fatta oggetto, e in particolare dopo essere stata accusata di avere abortito, la Donati ricorse, ma senza alcun esito, al procuratore del Re, costringendo le autorità comunali a promuovere un'inchiesta che si era conclusa con un documento ufficiale apertamente schierato in difesa della maestra. La scelta di cambiare abitazione non servì a placare i pettegolezzi, che, anzi, ricevettero alimento dalla nuova situazione: la ragazza venne infatti accusata di essere l'amante del figlio del proprietario di casa e di aspettare un figlio da lui. Né miglior esito ebbe il trasferimento predisposto dal Comune e dal nuovo sindaco: gli abitanti della frazione nella quale avrebbe dovuto prendere servizio le inviarono messaggi oltraggiosi, nei quali dichiaravano di non essere disposti ad accettare l'“avanzo” dei porcianesi. Una lettera con la quale disponeva che il suo corpo fosse lasciato al Tribunale per l'autopsia e che alle esequie partecipassero soltanto bambine e bambini, compresi i suoi scolari, oltre a una missiva destinata al fratello Italiano e ai familiari furono gli atti che precedettero il gesto estremo: il 1° giugno 1886 il corpo di Italia Donati venne trovato nel deposito d'acqua di un mulino. All'autopsia, che dimostrò peraltro la sua innocenza, seguì il modesto funerale, così come lei aveva predisposto, e l'interramento nel paese tanto odiato poiché la famiglia non poteva permettersi la spesa per il trasferimento della salma. Di lì a poco, però, il corpo fu riesumato e condotto al paese natale con un funerale che vide «un immenso concorso di popolo, senza distinzione di classe, di grado, di condizione. [...] Immaginatevi un'intera vallata, cinquanta o sessanta paesi in movimento, ventimila persone – più che meno – che durante il lungo percorso di dieci o dodici miglia s'accalcano a veder passare il corteo, s'arrampicano per le rupi, in cima agli alberi, si spargono tra i campi di granoturco e di frumento, e depongono sul carro funebre – che fino al confine lucchese andò sempre di corsa – ghirlande, trofei di fiori, nastri ricamati». Così Carlo Paladini, “redattore viaggiante” del Corriere della Sera, ci descrive quella celebrazione che aveva potuto aver luogo e suscitare tale partecipazione proprio grazie al suo giornale, il quale aveva dato ampio risalto alla notizia del suicidio della maestra, promovendo un'inchiesta e organizzando anche una sottoscrizione. Se la gravità del gesto compiuto e la risonanza che la vicenda ebbe grazie all'ampio spazio che ad essa dedicarono il Corriere e la stampa di categoria fanno di quello della Donati un caso eclatante, il dibattito che ne scaturì mise in evidenza che la condizione di molte maestre, soprattutto di quelle rurali, non era molto diversa. La loro situazione era stata denunciata, fra gli altri, da Matilde Serao e lo stesso Corriere della Sera aveva dato notizia di numerosi casi analoghi e, più in generale, delle difficili condizioni di vita delle maestre rurali, in larga misura riconducibili alla legislazione scolastica post unitaria. La legge Casati, infatti, affidava ai Comuni le competenze sulla scuola elementare e sui maestri, i quali si trovavano praticamente in balia delle amministrazioni locali, che potevano licenziarli a loro piacimento e pagavano loro stipendi inferiori al minimo legale. La stessa legge permetteva, inoltre, in alcuni casi, di istituire le “scuole miste”, nelle quali i maestri insegnavano, in orari diversi, sia ai bambini che alle bambine e percepivano uno stipendio già di per sé molto basso, che veniva oltretutto decurtato di un terzo nel caso che l'insegnante fosse una donna. Le difficili condizioni delle finanze comunali indussero a un abuso nell'istituzione di questo tipo di scuole e ad un massiccio impiego di maestre, le quali si ritrovarono così ad occupare il gradino più basso nella gerarchia scolastica e, in quanto donne spesso lontane dalle famiglie, a subire pesanti discriminazioni. Soltanto nel 1911 la scuola elementare fu avocata allo Stato: c'era stato bisogno di una lunga campagna alla quale aveva contribuito anche il dibattito nato in seguito alla tragica vicenda di Italia Donati. Maria Teresa Bertilotti |