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Dalla prima guerra mondiale al secondo dopoguerra (1915-1950) » Raphaėl Mafai Antonietta  
1900 - 1975
 


 

 
Antonietta Raphaël Mafai nello studio di Roma con la Grande Genesi, 1965 - Foto cortesia Centro Studi Raphael Mafai  

Se c'è stata nell'arte italiana l'unione di una coppia formidabile di artisti, questa è stata l'unione di Antonietta Raphaël e Mario Mafai.

Sono amica da molti anni delle figlie e in particolare di Giulia, e ricordo quando, con i nostri figli piccoli, andavamo a trovare la «nonna» che era in vacanza sul lago Trasimeno. Aveva una casetta disordinatissima con un bel giardino pieno di fiori; la Raphaël era già molto anziana e al nostro arrivo ci veniva incontro radiosa, parlando il suo italiano curioso, con strani vestiti e calze di un colore rosa violetto molto acceso. Vederla era già come entrare in un suo quadro.

Era nata in Lituania, non si è mai saputo con certezza luogo e data di nascita, come è avvenuto per molti russi emigrati in Europa, poiché erano stati distrutti gli archivi anagrafici. Lei giocava a cambiarsi l'età con divertente civetteria. Era figlia di un rabbino e dal suo paese aveva portato i colori puri, la leggerezza e la fantasia irreale dei quadri di Chagall.

Studiando a Londra si era diplomata in musica, poi a Roma si era iscritta alla Accademia di Belle Arti al corso di “scuola libera del nudo” e lì aveva conosciuto Mafai.

Dal loro matrimonio sono nate tre figlie, i volti e i corpi delle bambine sono sempre soggetti presenti nei quadri e nelle sculture, probabilmente erano per lei delle comode modelle.

Non penso che la famiglia sia mai stata un impedimento nel suo lavoro, perché aveva trovato il modo di vivere le difficoltà come un arricchimento e una maggiore ragione di forza. Era lo stesso atteggiamento coraggioso che aveva espresso di fronte al problema che doveva affrontare per la sua condizione di ebrea.

Parlava molte lingue ma nessuna bene, dopo tanti anni vissuti in Italia ancora costruiva la frase in modo strano e storpiava la pronuncia delle parole, in realtà parlava un linguaggio inventato. Della sua origine aveva conservato una certa atmosfera magica unita ad un misticismo antico, aveva una fantasia libera, il clima della sua vita era zingaresco, da nomade internazionale.

Il suo temperamento, il modo di vedere la realtà, aveva influenzato la pittura non solo di Mafai, ma anche di Scipione, formando quella che Roberto Longhi chiamò la “scuola di via Cavour”. La sensibilità visionaria della piccola russa aveva stimolato tutto un gruppo di artisti romani, creando tra loro un forte sodalizio. Erano gli artisti della «scuola romana» che espressero molto bene l'atmosfera degli anni Quaranta; poi con Roma liberata si sciolse il gruppo e ciascuno andò per la sua strada.

In lei ogni cosa era espressa con grande forza, con la scultura trovò la tecnica più vicina al suo modo di fare arte. Diceva: «la sola parola scultura mi riempie di una paura quasi religiosa».

Questa sua scelta serviva probabilmente anche a differenziarsi da Mafai con il quale ha conservato sempre un rapporto leale di confronto-scontro nel lavoro e di grande amore e comprensione nella vita, come si legge nelle bellissime lettere che si scambiarono. Il loro era un amore che non esigeva l'annullamento dell'altro, un sentimento tra due esseri alla pari.

Di mostre e di riconoscimenti ufficiali ne ebbe tanti, come la partecipazione alle Quadriennali di Roma e alle Biennali di Venezia, ma solo dopo gli anni Cinquanta. Prima vi furono le persecuzioni razziali, poi la guerra e gli spostamenti, tutto questo aveva ritardato la possibilità di una lettura critica del suo lavoro che era noto solo a coloro che frequentavano lo studio di Mafai.

Certo, anche essere donna era una condizione che la metteva in una posizione marginale, allora era ancora molto raro per una donna fare l'artista.

Prima della guerra aveva esposto solo alle Mostre Sindacali, ma il clima di quegli anni era molto lontano dall'espressione della Raphaël, era infatti fortemente legato all'impostazione classicista di Marino Marini e di Manzù. Solo dopo, negli anni Sessanta, ottiene un pieno riconoscimento delle sue qualità, i tempi infatti erano cambiati e la nuova sensibilità critica era attenta al primitivo e alle espressioni più dirette, più libere.

La Raphaël viveva il suo lavoro con grande autonomia, come una necessità interiore; non dubitava mai del suo valore e non aveva bisogno di consensi esterni per continuare per la sua strada.

Il suo modo di procedere è molto attuale: accoglie i cambiamenti e segue una sua spinta intuitiva, sospendendo l'elemento razionale, probabilmente anche questo ha una sua matrice nel vento d'oriente che veniva del suo paese.

Quando dipinge un quadro come quando scolpisce, sa dove comincia, ma non sa dove finisce, è lontana dall'idea classica del progetto o del bozzetto preparatorio. Solo nel fare si matura e si manifesta il suo lavoro. Non a caso, senza porsi alcun problema, aggiunge un pezzo di tela quando la superficie da dipingere non basta, oppure come accade frequentemente, fraziona in più parti una scultura già finita, creando dei frammenti che diventano più espressivi con la messa a fuoco di un particolare.

Cesare Brandi scrive nel ‘55: «Allora mi pare che la Raphaël non pensasse più alla pittura e aveva invece incominciato gagliardamente delle sculture che non furono una minore sorpresa per tutti noi. Sopra ogni altra, un forzo di giovinetta che, senza voler fare dell'antico, portava le sue mutilazioni come una statua antica».

Quello che non arriva a modellare lo dipinge, i suoi temi sono spesso biblici, la fuga dall'Egitto, Giuditta e Oloferne; o sono personaggi di antichi miti, Niobe, Narciso; oppure sono soggetti legati all'attualità. In alcune pitture appaiono Mafai e le figlie rappresentati insieme agli oggetti della casa. Spesso, nelle nature morte, vi sono degli strumenti musicali, il candelabro a sei braccia, dei drappi di tessuti arabescati, oppure appoggiati su un tavolo troviamo il pettine e lo specchio, questo ultimo, con il tema del doppio rispecchiato è un motivo molto visitato nel mondo iconografico della Raphaël.

Ricordo la suggestione dello spazio della grande casa-studio a due piani a via della Farnesina, le grandi sculture erano incombenti e si potevano riconoscere sui tavoli, tra i libri e mischiati alle cose di uso comune, gli oggetti dipinti nelle tele, dove tutto il quotidiano diventava irreale, visionario e coloratissimo. Questa era la magia di questa piccola donna forte e un poco tozza che sembrava una strega buona.

Alla domanda, quale fosse lo scopo etico della sua arte, postale da un critico, la Raphaël semplicemente rispose: «Non è facile rispondere. Lavoro, ho sempre lavorato a un soggetto: la madre con il bambino cioè la genesi e la maternità. Come maternità intendo l'inizio del mondo, l'inizio delle cose, di tutte le cose. Amo molto le figure umane perché possono dare più di ogni altra cosa l'idea del movimento».

Daniela Ferraria

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