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Foto cortesia Renata Asquer |
Magra, occhi azzurri, elegante signora che porta molto bene i suoi anni, Fausta Cialente ha 78 anni quando, nel 1976, vince il Premio Strega con Le quattro ragazze Wieselberger.
È il suo ultimo libro (nello stesso anno esce anche Interno con figure, ma è una raccolta di vecchi racconti) ed è quello dove la scrittrice riesce a ricomporre i fili esistenziali, storici, memoriali, emblematici, narrativi e linguistici che hanno percorso la sua vita e le sue opere.
Il racconto, dichiaratamente autobiografico, dipinge un’epoca (quasi un secolo di storia d’Italia) e dà vita a personaggi esemplari di certe caratteristiche degli italiani, che conservano però, e in certi casi recuperano, la dimensione di uomini e donne presenti nel quotidiano di Fausta.
La stessa autrice, tante volte rappresentata fragile, e incline talora a eccessi di autocommiserazione, si mostra e si confessa anche donna forte, astuta, consapevole dei privilegi che le hanno conferito cultura, tradizione familiare, classe di appartenenza, cioè dei privilegi di quella borghesia che tante volte ha criticato e di cui ha svelato ipocrisie, avidità, stupidità, ignoranza.
Triestina, nata nel 1898 a Cagliari per caso, a seguito dei continui spostamenti del padre, ufficiale di carriera, Fausta Cialente ha iniziato, ragazzina, a scrivere per passione, come per passione il fratello Renato (che morirà a 46 anni travolto da un automezzo tedesco) diverrà uno degli attori più importanti del tempo.
Nel 1921, Fausta sposa il compositore Enrico Terni con il quale si trasferisce ad Alessandria D’Egitto e poi al Cairo dove rimarrà fino al 1947: in quelle terre e in quegli anni trova la sua scrittura, che, sia pure con diverse modalità, sarà sempre scrittura di confine, scrittura nata dal “soggetto nomade” che, in vari sensi, fu la Cialente.
Originaria di una terra dalle tre culture (italiana, slovena, austriaca), Fausta ha viaggiato molto, sia con la famiglia di origine (in Italia), sia con il marito (in Egitto); sia infine da sola o con la figlia Lily e il genero John (Francia, Inghilterra, Quwait... ), ha avuto contatti con mondi politici, culturali, sociali molto diversi l’uno dall’altro, imparando a conoscere e apprezzare, a guardare, accogliere e rappresentare i destini di donne e uomini, diversi per cultura, per classe di appartenenza, per nazionalità (senza ombra di esotismo, neanche quando tratta culture di moda in quegli anni: la levantina, quella dei fellah, quella egiziana... ), con una capacità di riconoscere l’essenza comune dell’essere uomo e donna.
Il primo libro è Natalia (Roma, Sapienza, 1930), scritto nel 1927; nel 1929, su L’Italia Letteraria, è intanto uscito il racconto Marianna (che già presenta la nozione di ambiguità, di coesistenza inquietante tra ordine e libertà, regole e provocazione, sensualità e convenzione e già sceglie come protagonisti, e come avverrà per altri scritti successivi, bambini curiosi, irriverenti, provocatori), e nel 1936 (ma scritto nel 1931) pubblica Cortile a Cleopatra (Milano, Corticelli) e il racconto Pamela o la bella estate, in Occidente.
In Cortile a Clopatra, che avrà successive edizioni (Sansoni, 1953; Feltrinelli, 1962) e che resta probabilmente il suo capolavoro (e susciterà un certo entusiasmo anche in Cecchi), ma anche nei bellissimi racconti Pamela o la bella estate, Marianna, Spiagge, Canzonetta, Le statue... (tutti pubblicati quasi sempre prima in rivista, poi nelle raccolte: Pamela o la bella estate, Feltrinelli 1962, Interno con figure, Ed. Riuniti 1976), Fausta Cialente lascia grande spazio alla libertà inventiva e immaginativa, al rapporto tra il mostrarsi e l’essere, alla percezione dell’esistenza tramite il corpo, la forma, la materia, sia di chi percepisce sia di ciò che viene percepito, con esiti straordinari, come nella rappresentazione di una natura viva, colorata, profumata, in movimento.
La dolcezza del ritmo narrativo, la sapienza nel gestire le storie sul doppio binario del presente e della memoria, le descrizioni degli scenari, la capacità di raccontare i sentimenti e la psicologia dei personaggi attraverso un gesto, un lieve movimento delle ciglia, mani che si sfiorano, un lessico ora fiabesco ora materico, dagli aggettivi precisi e morbidi, restituiscono una fisicità – che appartiene certo alla terra raccontata ma anche alla percezione del suo stesso corpo così presente e
in prima linea – che affascina e incanta. Questi elementi sono anche il segno del suo originale e straordinario modo di scrivere “al femminile”, che non sta nella riflessione teorica o in precise tematiche o problematiche che Fausta Cialente a tratti affronta, ma nella capacità di porsi in modo assolutamente autentico – dunque nel suo caso femminile – di fronte alle sue emozioni e di riuscire a dare loro forma.
Dal 1936 al 1962, Fausta Cialente scrittrice tace. Vive in Egitto in maniera sofferta e indignata l’avanzare del nazismo e del fascismo, la guerra e il dopoguerra. Partecipa alla vita culturale e sociale della comunità italiana, nel 1943 è invitata a collaborare alla nota trasmissione radiofonica, Middle West, di propaganda antifascista e antinazista, e nel 1943 fonda e dirige il giornale antifascista per i prigionieri italiani Fronte Unito. Tornata in Italia, collabora a l’Unità, Rinascita, Italia nuova, Noi donne.
Questi anni, prima che ne Le quattro ragazze Wieselberger, Fausta li racconta, ancora ricorrendo a finzioni, in Ballata levantina (Milano, Feltrinelli, 1962), per il quale rimangono tutte le notazioni fatte per le opere precedenti.
In più, in questo romanzo, lo sguardo della scrittrice si apre sul fascismo, sulla guerra, sul mondo, e indaga il rapporto, strettamente intrecciato, e non solo nella sua individuale esperienza ma nei sovvertimenti di un secolo tragico e appassionato, tra la storia personale e la Storia.
Avviene però che il ritmo vitale, arioso, dove gli oggetti si animano, le figure, il tempo, la realtà e il sogno si confondono e si accavallano, o le pagine nette, pulite, a volte malinconiche, insomma la limpidezza e la libertà del narrare, vengano di tanto in tanto mortificati da inserti “impegnati”, da cadute di coscienza e di sincerità narrativa, da soluzioni poco credibili, dalla preoccupazione di sottolineare il proprio impegno politico, il proprio posizionamento.
L’impressione è che, con Ballata levantina che pure resta tra le cose più belle che la Cialente abbia scritto, abbia inizio una sorta di revisione delle funzioni e delle modalità narrative che si aggraverà nei successivi Un inverno freddissimo (Feltrinelli, 1966; poi sceneggiato televisivo col titolo di Camilla) e Il vento sulla sabbia (Mondadori, 1972), e anche nella riedizione dei racconti, alcuni dei quali risultano rivisti con inserti “impegnati” totalmente estranei.
E questo perché (ma andrà indagato a fondo) in qualche modo Fausta, nel mondo maschile e maschilista qual è quello intellettuale (di ieri e di oggi), finisce per accettare il canone tradizionale ancora non discusso (bisognerà aspettare gli anni ‘80 perché inizi la ricerca sulle scrittrici italiane e la rivalutazione degli scarti operati dalla loro scrittura: prima di allora si davano per inesistenti).
Accettando cioè lo sguardo maschile come giudice del suo stesso sguardo e della sua scrittura, Fausta finisce per fare propria la nozione di letteratura come risultato (da raggiungere faticosa mente) dell’incontro tra impegno politico e distacco emotivo (con catarsi finale), e per rinunciare alla libertà espressiva dando il primato al “contenuto”. Per esempio, colpisce in queste opere la durezza e il fondamentalismo ideologico nelle rappresentazioni di personaggi maschili (tutti segnati dall’esperienza col padre) che invece in precedenza possedevano una verità narrativa che, oltre tutto, riusciva a rappresentare l’aspetto profondo del maschilismo e non quello puramente funzionale alla denuncia.
È come se lei, che era più avanti, fosse stata resa incerta dalle riserve e anche dalle lodi di certa critica (maschile), compiendo un cammino inverso da quello che Virginia Woolf auspicava per le scrittrici: da libera si costringe alle regole, da accogliente diventa risentita, e il suo sguardo, da soggetto forte (come è quello delle prime opere) va verso l’irrigidimento ideologico o la neutralità.
Ma poi scrive Le quattro ragazze Wieselberger e qui recupera le componenti importanti della sua scrittura: lo “scrivere (di) sé”, del suo sguardo, del suo mondo, si salda all’impegno etico e civile e la puntigliosa intelligenza storica detta pagine (importanti “fonti” per la Storia d’Italia di quegli anni) riguardo a problematiche ancora irrisolte sul piano della analisi storiografica (l’irredentismo, la guerra, le cause del fascismo, la funzione della borghesia, la posizione ambigua dell’Inghilterra... ), o a questioni ancora aperte (la condizione delle donne, il rapporto tra culture diverse, l’avanzare del così detto progresso, gli interessi economici sempre alla base della politica... ). E soprattutto torna quella limpidezza e quella complessità lessicale, quel suo linguaggio necessario alla forza evocativa e descrittiva, quella libertà di parola che distingue le vere scrittrici (e i veri scrittori).
Intanto si è separata dal marito, lavora e vive a Roma con la madre, con la quale ha finalmente recuperato un rapporto sofferto ma affettuoso, e, dopo la sua morte, si trasferisce nella grande villa nei pressi di Varese, pur compiendo ancora viaggi, in Kuwait dalla figlia Lily, o in Inghilterra, dove, nel 1994, muore questa grande scrittrice, sulla quale bisognerà tornare, e a lungo.
Anna Santoro