Il problema del Mezzogiorno
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Al momento dell'unificazione appare chiaro alla classe dirigente risorgimentale quanto fino ad allora era rimasto sostanzialmente ignoto: e cioè la grande diversità esistente tra il Nord e il Sud della penisola. A questa mancata consapevolezza aveva contribuito tra l'altro il fatto concreto che erano stati pochissimi i rappresentanti delle élites centro-settentrionali a visitare e conoscere i luoghi dell'Italia meridionale. Rarissimi erano quelli che avevano visitato Napoli e nessuno, praticamente, si era spinto più a Sud. Proprio questa condizione di partenza spiega anche la sorpresa – in un certo senso vero e proprio sbigottimento – quando fu gioco forza prendere atto della realtà. Il divario fra le due parti della penisola preesisteva di molto al 1860, innanzitutto per ragioni storiche e geografiche. Perlomeno a partire dalla caduta dell'impero romano, Nord e Sud avevano avuto due storie diversissime. Il Sud, interamente assorbito nell'area mediterranea, in particolare del Mediterraneo sud-orientale, era stato politicamente unificato fin dal XIII secolo, ma sempre ad opera di conquistatori e dinastie extra italiane, a cominciare dai normanni, in un Regno alla cui autorità centrale, a Napoli, non faceva da contrappeso nessuna tradizione cittadina, nessun centro urbano di rilievo, ma solo un ceto di potenti feudatari durato fino alle soglie del XIX secolo. Grande era dunque la differenza rispetto a un Nord in facile comunicazione con l'Europa centrale, ricchissimo di città dotate di una forte tradizione di autonomia e sedi di un'elevata conflittualità politica, interna e tra di loro: conflittualità spesso distruttiva ma anche fonte di straordinaria crescita socio-culturale. Dal punto di vista della conformazione geofisica, poi, al Sud prevalenza di un territorio montagnoso-collinare con frequenti fenomeni franosi, scarse pianure spesso, per giunta, situate lungo le coste infestate da vaste zone malariche, e poi corsi d'acqua dal regime irregolarissimo, un clima spesso secco-arido. L'opposto al Nord, come ben si sa, con una grande pianura in gran parte irrigua, attraversata da numerosi corsi d'acqua. Questi caratteri strutturali danno conto a sufficienza delle origini del divario esistente al momento dell'Unità. Un divario che già si delinea imponente nel tasso di analfabetismo, che nel 1871 era al Nord del 54,2% e al Sud di ben l'81%. In Sicilia erano analfabeti addirittura 93 abitanti su cento: in specie nella popolazione femminile sapevano leggere e scrivere, in pratica, solo le donne appartenenti all'aristocrazia o comunque alle classi più elevate. Il tasso di scolarità primaria, che in Lombardia e in Piemonte toccava già il 90%, nel Sud era appena del 18%.
Un altro divario quanto mai significativo era quello riguardante le strade: secondo dati del 1863 la Lombardia da sola possedeva una rete stradale di complessivi 28 mila chilometri a paragone dei 14 mila dell'intero Regno di Napoli, Sicilia inclusa. Quanto allo sviluppo economico in generale, si calcola che sempre al momento dell'Unità il Pil del Nord fosse circa due volte e mezzo quello del Sud, mentre il valore della produzione agricola, che era di 400 lire per ettaro nell'Italia settentrionale, nel Regno delle Due Sicilie superava di poco le 80. Concorrevano a questo grande divario di reddito vari fattori, tra cui: l'entità del patrimonio bovino (che nel Nord rappresentava circa la metà di quello di tutta la penisola), la qualità degli allevamenti già in parte notevole stabulati, le tecniche avanzate di rotazione delle culture. Eguale dislivello fortissimo nelle principali attività industriali dell'epoca. Nel numero delle bacinelle per ricavare dai bozzoli il filo di seta e nel numero dei fusi per la filatura del cotone il rapporto era di circa uno a quattro a favore del Nord; solo il numero dei telai di lana era di appena poco più del doppio. Il Lombardo-Veneto da solo produceva nel 1858 più seta greggia di tutta la Francia. In tal modo, soprattutto grazie alla seta e ai formaggi, il tessuto agricolo settentrionale aveva già dato luogo a importanti circuiti di vendita all'estero (da Lione a Taganrog in Crimea), sostenuti da attivissime case commerciali e da una rete bancaria ricca di un gran numero di Casse di risparmio. Nel Mezzogiorno, invece, case commerciali e istituti di credito erano totalmente assenti (solo Napoli e Palermo erano sede delle due banche di emissione) e ciò aveva conseguenze decisive. Infatti, l'agricoltura perlopiù cerealicola e oleo-vinicola meridionale realizzava sì quote importanti di esportazioni (l'olio d'oliva, usato per l'illuminazione, rappresentava la metà del valore delle esportazioni) ma queste erano tutte gestite fin dal porto d'imbarco da case di commercio e di trasporto straniere, le quali si accaparravano così il valore aggiunto del prodotto esportato.
La stessa cosa valeva per il commercio d'esportazione del vino della Sicilia e per il commercio dell'unica materia prima d'uso industriale, lo zolfo, sempre siciliano, entrambi in mano a ditte inglesi. In sostanza, quella del Sud rassomigliava per molti aspetti, al momento dell'Unità, a un'economia di tipo coloniale: i prodotti locali, coltivati nell'entroterra, arrivavano a cura dei commercianti stranieri nei porti d'imbarco e da qui, si avviavano su naviglio straniero, ai mercati europei. Insomma tra le economie delle due parti d'Italia – fatto senz'altro importantissimo – non c'era quasi alcun rapporto. Lo sviluppo dell'Italia settentrionale era avvenuto, infatti, in modo assolutamente indipendente dalle esportazioni verso il Sud. Del resto, considerando tutte le esportazioni degli Stati preunitari, solo il 20% di esse avveniva prima del 1861 verso altri Stati italiani. Nord e Sud, insomma, avevano due economie che avevano tra loro ben poche relazioni, diversissime e a provare quanto l'intero contesto settentrionale fosse, e si sentisse, lontano da quello meridionale basta il fatto che nella pur vastissima opera di Carlo Cattaneo non sia possibile trovare, in pratica, una sola pagina riguardante il Mezzogiorno. Il che rappresenta l'ennesimo indizio contro la tesi secondo la quale lo sviluppo del Nord, dopo l'Unità d'Italia, sarebbe avvenuto principalmente grazie allo sfruttamento del mercato meridionale. Un territorio depredato e un'agricoltura senza investimenti L'autore, un illuminato altissimo funzionario dell'amministrazione borbonica, ci fa indirettamente vedere con quale abissale svantaggio economico di partenza il Mezzogiorno d'Italia si presentò all'appuntamento con l'unificazione. Carlo Afan de Rivera, Considerazioni su i mezzi da restituire il valore proprio ai doni che la natura ha largamente conceduto al Regno delle Due Sicilie, Napoli 18332, II, pp. 35-38, 40-45, 52-55, riprodotto in D. Mack Smith, Il risorgimento italiano. Storia e testi, Bari, Laterza, 1968, pp. 152-155.
Il sottosviluppo dell'agricoltura siciliana Il console francese a Palermo descrive nel 1834 le ragioni strutturali delle pessime condizioni agricole dell'isola e del suo scarso sviluppo manifatturiero. Rapporto di De Ségur, in Le riforme di Ferdinando II in Sicilia nel giudizio dei diplomatici della monarchia di luglio, a cura di A. Saitta, in «Annuario dell'Istituto Storico Italiano per l'Età Moderna e Contemporanea», 1954, VI, pp. 238-239, 241, 243, riprodotto in D. Mack Smith, Il risorgimento italiano. Storia e testi, Bari, Laterza, 1968, pp. 135-137.
Le pagine di Luciano Cafagna, forse il più acuto e il più brillante tra i nostri storici dell'economia, illustrano in modo convincente alcune delle ragioni che inducono a ritenere infondata la tesi di uno sviluppo economico dell'Italia settentrionale a spese dell'Italia meridionale. L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d'Italia, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 190-193, 206-212. |