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I Mille di Garibaldi - 1860 - locandina |
L’occasione favorevole per rilanciare un’iniziativa rivoluzionaria in tutta la penisola fu propiziata dall’azione di alcuni mazziniani siciliani esuli in Piemonte, Francesco Crispi e Rosolino Pilo, che concepirono il progetto di una spedizione di volontari in Sicilia come primo passo verso una sollevazione nazionale che avrebbe dovuto raggiungere Roma e Venezia.
Il casus belli della spedizione venne fornito dalla rivolta palermitana della Gancia del 4 aprile 1860, capeggiata da Pasquale Riso.
Il tentativo insurrezionale venne sedato sul nascere dall’esercito di Francesco II ma si allargò in una serie di moti antiborbonici nelle campagne dell’isola.
L’esistenza di questo clima insurrezionale in Sicilia spinse Agostino Bertani, Francesco Crispi e Nino Bixio a chiedere a Giuseppe Garibaldi di capeggiare una spedizione di volontari che, partendo da Genova, sbarcasse in Sicilia e risalisse l’intera penisola.
Dopo alcune incertezze legate alla concreta realizzabilità dell’impresa, Garibaldi si convinse ad abbracciare il progetto siciliano e il 13 aprile, dopo aver discusso il giorno precedente la questione di Nizza in Parlamento, giunse a Genova e prese dimora a Villa Spinola, l’abitazione di Candido Augusto Vecchi.
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G. Induno - Partenza dei Mille da Quarto - olio su tela - Museo del Risorgimento - Milano |
Nello stesso momento, si mise in moto, pubblicamente, in tutto il Regno, l’attività di propaganda per l’arruolamento dei volontari.
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A. Meylan - Francesco Crispi - 1860 - Fotografia - Collezione Diego Mormorio - Roma |
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Il Piemonte ed il Lombardo salpano per la Sicilia. |
La spedizione in Sicilia venne organizzata, dunque, sotto lo sguardo vigile e consapevole della polizia sarda e del governo Cavour, sotto quello inquieto di tutte le diplomazie europee, a partire, naturalmente, da quella borbonica e, infine, sotto quello curioso dei giornalisti che circondavano Villa Spinola.
Le armi della spedizione, infatti, dopo il rifiuto da parte del governatore di Milano, Massimo d’Azeglio, di utilizzare quelle raccolte dalla sottoscrizione per “un milione di fucili”, vennero fornite dal presidente della Società Nazionale e, sebbene non fossero le moderne carabine Enfield, provenivano dall’armamento con cui l’esercito piemontese aveva combattuto nel 1859.
Inoltre, i vapori utilizzati per le spedizione in Sicilia, il Lombardo e il Piemonte, anche se apparentemente vennero presi con un colpo di mano capeggiato da Nino Bixio e da alcuni volontari, erano in realtà stati messi a disposizione da Giambattista Fauché, procuratore della Società Rubattino proprietaria delle navi.
Nella notte del 5 maggio, dunque, dallo scoglio di Quarto a Genova, 1.162 volontari si imbarcarono sui piroscafi Piemonte e Lombardo e all’alba del 6 maggio presero il largo alla volta della Sicilia. Il 7 maggio venne effettuata una sosta a Talamone durante la quale si eseguì il carbonamento dei vapori, vennero raccolte munizioni, armi e viveri dal vicino deposito dell’esercito sardo di Orbetello e, infine, un reparto di volontari mazziniani, guidato da Callimaco Zambianchi, abbandonò la spedizione per suscitare una rivolta nei territori dello Stato pontificio.
I 1089 volontari rimasti – tra di essi c’era anche una donna Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi – provenivano in maggioranza dalla Lombardia, dalla Liguria e dal Veneto – con una piccola minoranza di sudditi borbonici – ed erano, per lo più, studenti, avvocati, medici, professionisti e artigiani molti dei quali, come Giuseppe Sirtori, Giuseppe Missori e Giuseppe La Masa, avevano combattuto nelle campagne militari del 1848-1849 e del 1859.
I Mille vennero divisi in 8 compagnie, ognuna comandata da un ufficiale scelto da Garibaldi, che si raccolsero in 2 battaglioni agli ordini di Nino Bixio e di Giacinto Carini. Giuseppe Sirtori venne nominato capo di stato maggiore, Giovanni Acerbi responsabile dell’intendenza, István Türr primo aiutante di campo.
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In alto: G. Titone - Sbarco dei Mille a Marsala - olio su tela - Museo del Risorgimento - Milano In basso: Una stampa dello sbarco dei Mille a Marsala, al Museo del Risorgimento di Palermo. Sarebbe potuto essere un massacro dato che due vapori borbonici arrivarono durante le operazioni, ma al largo c'erano anche due piccole navi da guerra inglesi. I borbonici persero tempo per capire le intenzioni di quest'ulime e intanto Garibaldi completò lo sbarco. |
Il 9 maggio il Piemonte e il Lombardo ripartirono verso la Sicilia e l’11 maggio riuscirono ad arrivare nel porto di Marsala, nella costa orientale dell’isola, senza essere intercettati dalla marina borbonica.
Lo sbarco dei volontari avvenne senza nessuno spargimento di sangue perché quando giunse, in prossimità del porto, la nave borbonica Stromboli, il comandante Guglielmo Acton esitò ad aprire il fuoco temendo di colpire gli stabilimenti inglesi Woodhouse e Ingham per la produzione e l’esportazione del vino Marsala, che erano a ridosso del molo, e le due navi militari britanniche, la Argus e la Intrepid che erano alla fonda.
Quando le navi borboniche decisero di aprire il fuoco – alla pirocorvetta Stromboli si era unita anche la fregata a vela Partenope – i garibaldini erano ormai usciti dal porto ed erano entrati in città. Il 12 maggio i volontari lasciarono Marsala e raggiunsero, prima, Rompingallo e, poi, il 13 Salemi dove Garibaldi, il giorno successivo, assunse solennemente la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II re d’Italia e dichiarò decaduto il dominio borbonico in Sicilia. Il 15 maggio, vicino Calatafimi, si svolse il primo combattimento tra i volontari garibaldini, cui si erano aggiunte alcune squadre di insorti siciliani, e l’esercito napoletano guidato dal generale Francesco Landi.
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R. Guttuso - La battaglia di ponte Ammiraglio - 1952 - olio su tela - Galleria d'arte moderna - Roma |
La battaglia vide contrapposte le truppe borboniche, comandate dal maggiore Michele Sforza, collocate su un’altura detta Pianto dei Romani, e i “Mille” di Garibaldi posizionati sul colle opposto, il Monte Pietralunga.
Lo scontro avvenne sui gradoni del Pianto Romano – dei terrazzamenti artificiali, sorretti da muretti a secco – e si concluse dopo una serie di attacchi con cui i garibaldini riuscirono a risalire i gradoni ad uno ad uno fino alla vetta. La battaglia di Calatafimi, di scarsa importanza da punto di vista militare – si contarono circa 30 morti per parte –, si rivelò fondamentale dal punto di vista del morale dei combattenti e fu il preludio della ben più importante presa di Palermo.
Dopo Calatafimi, Garibaldi organizzò un diversivo fingendo di dirigersi verso Corleone e riuscì a far perdere le proprie tracce e ad ingannare le truppe borboniche guidate dal colonnello svizzero Luca Von Mechel che, nel frattempo, aveva avuto l’ordine di mettersi all’inseguimento dei Mille.
Lo stratagemma permise ai garibaldini di raggiungere, dopo una serie di estenuanti marce notturne, prima, Misilmeri il 25 maggio e, poi, Gibilrossa, alle porte di Palermo, il 26, dove li attendeva Giuseppe La Masa con altre squadre di insorti siciliani. In questo modo, mentre Von Mechel marciava verso Corleone, Garibaldi, durante la notte del 26 maggio, con 750 volontari ancora validi e 3.000 insorti siciliani, marciò verso Porta Termini, ovvero il punto meno difeso della città di Palermo.
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E. Sevaistre - L'impresa dei Mille: Palermo. Il cappello del direttore della Polizia innalzato su una barricata presso Porta di Castro - Primi di giugno 1860 - fotografia - Istituto per la Storia del Risorgimento - Roma Palermo |
Dopo i primi scontri sul ponte dell’Ammiraglio i garibaldini riuscirono ad entrare nella città e a raggiungere la piazza della Fieravecchia la mattina del 27 maggio.
La popolazione palermitana insorse, vennero innalzate le barricate e si iniziò a combattere per le strade di Palermo mentre dalla fortezza di Castellammare e dalle navi ormeggiate nel porto l’esercito borbonico bombardava la città.
Nonostante gli scontri e i bombardamenti che colpirono duramente Palermo, i garibaldini riuscirono a resistere e a non perdere il possesso della città.
La mattina del 30 maggio, però, dopo tre giorni di combattimenti e nel momento di maggior difficoltà per i volontari, il generale borbonico Ferdinando Lanza, chiese un incontro con Garibaldi concordando un’immediata cessazione dei combattimenti. Al primo incontro tra il generale borbonico Giuseppe Letizia, delegato di Lanza, e Garibaldi stesso, che si svolse il 30 sulla nave inglese Hannibal comandata dall’ammiraglio George Mundy, ne seguì un altro il giorno successivo, nel quartiere generale di Garibaldi, in cui fu deciso di prolungare l’armistizio per altri tre giorni. Il 6 giugno, infine, lo stesso generale Lanza siglò la capitolazione dell’armata napoletana che lasciò Palermo e iniziò ad imbarcarsi verso Napoli. Lo sgombero finì il 19 giugno.
Il re borbonico Francesco II, per far fronte a questi insuccessi, scelse di avviare una politica liberale: decise , innanzitutto, di ripristinare, il 25 giugno, la Costituzione concessa dal padre nel 1848 e, quindi, di adottare il tricolore come nuova bandiera del Regno. Infine, risolse di allontanare dal governo i cosiddetti ministri “reazionari”. Queste scelte, però, produssero l’effetto opposto a quello desiderato e il passaggio dal regime assolutistico a quello costituzionale si rivelò fatale contribuendo al collasso sistemico del regime borbonico. Nel frattempo, le truppe garibaldine iniziavano ad aumentare di numero per l’arrivo di nuovi volontari. Per tutta l’estate, infatti, vennero in soccorso di Garibaldi ben 21 spedizioni di rinforzi, di uomini, armi e munizioni, che portarono un totale di altri 20 mila soldati al servizio dei garibaldini.
In questo complesso contesto politico-militare, Cavour cercò di riprendere, in più occasioni, le redini del gioco, come quando fece sbarcare a Palermo, il 6 giugno, Giuseppe La Farina con l’unico scopo di porre le basi per una rapida annessione della Sicilia al Regno sabaudo. Il 7 luglio, però, Garibaldi, convinto che l’esponente della Società Nazionale intralciasse i suoi progetti, decise di espellere La Farina dall’isola.
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A. Bernaud - Colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco - 1860 - fotografia - Musei Civici - Raccolta Bertarelli - Milano |
L’esercito napoletano, intanto, il cui comando era stato affidato al generale Tommaso Clary, era rimasto concentrato sulla parte orientale dell’isola: a Messina erano stanziati circa 18 mila soldati borbonici, 2.500 si trovavano tra Siracusa e Augusta e un migliaio, infine, erano posizionati a Milazzo.
Proprio nei pressi di Milazzo, ad Archi, il 17 luglio, una colonna garibaldina guidata da Giacomo Medici venne a contatto con le truppe comandate dal colonnello borbonico Ferdinando Beneventano del Bosco. I primi scontri videro prevalere le truppe borboniche che, però, decisero di ritirarsi all’interno di Milazzo invocando il sostegno di rinforzi. Rinforzi che non furono mai inviati perché il ministro della Guerra Giuseppe Salvatore Pianell aveva deciso di concentrare le forze militari nella difesa del Mezzogiorno.
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Anonimo - Nino Bixio - 1860 - fotografia - Istituto per la Storia del Risorgimento - Roma |
Il 19 luglio Garibaldi concentrò a Milazzo tutte le forze di cui poteva disporre e all’alba del 20 attaccò le linee avversarie con il proposito di sfondare al centro lo schieramento borbonico.
G. Induno - 1860: Garibaldi a Milazzo - olio su tela - Luigi Medici Del Vascello La Mandria |
Dopo molte ore di combattimento ogni offensiva garibaldina venne fermata dal fuoco borbonico e fu costretta a ripiegare.
Per le sorti della battaglia, risultò decisivo, invece, il bombardamento sulle linee borboniche che Garibaldi ordinò a bordo della nave Tükory, l’ex corvetta duosiciliana Veloce che era passata nelle file garibaldine.
Il colonnello del Bosco, dopo il bombardamento, ritirò i suoi uomini nella fortezza senza insistere nella difesa della città e Garibaldi poté entrare a Milazzo. Il 24 luglio le truppe borboniche trattarono la resa e s’imbarcarono con l’onore delle armi. Nella battaglia i garibaldini avevano perso circa 800 uomini tra morti e feriti, mentre i napoletani circa 150 soldati.
Alla battaglia di Milazzo seguirono le convenzioni del 28 luglio e del 1° agosto con le quali il generale Clary rinunciò a combattere.
Le guarnigioni di Messina, Siracusa ed Augusta capitolarono e la Sicilia poteva dirsi definitivamente conquistata dalle truppe garibaldine, sebbene una guarnigione borbonica rimase all’interno della cittadella, la fortezza che sovrastava Messina.
Alle crudezze delle battaglie militari si aggiungevano anche le enormi difficoltà di governo dell’isola che misero in luce l’inadeguatezza politica della dittatura garibaldina.
Oltre alla totale inefficacia del decreto sulla leva militare per tutti gli isolani – soltanto poche decine di siciliani risposero alla chiamata – si rivelò del tutto controproducente e demagogico il decreto sulla redistribuzione delle terre demaniali.
Tra giugno e settembre, infatti, scoppiò un movimento spontaneo di contadini che, in alcuni casi, portò alla violenta occupazione delle terre e alla dura repressione delle rivolte, come quella operata da Nino Bixio a Bronte.
A queste difficoltà, si assommavano, inoltre, le asprezze del confronto politico all’interno dello schieramento unitario.
Il terreno di scontro maggiore, tra liberali e democratici, riguardava le differenti prospettive politiche che animavano i due schieramenti: i liberali chiedevano il plebiscito per l’annessione dei territori conquistati mentre i democratici auspicavano le elezioni per l’Assemblea costituente.
In questo convulso scenario politico, Garibaldi non aveva altra scelta che andare avanti nella sua marcia, fino a quel momento vincente, progettando lo sbarco dei volontari in Calabria.
All’alba del 19 agosto, dopo essere partiti da Taormina ed aver effettuato una rotta che ingannò la flotta borbonica, i garibaldini riuscirono a sbarcare in Calabria a Porto Salvo di Melito. Il comandante delle truppe napoletane in Calabria Giambattista Vial si limitò a dare l’ordine di attacco ai generali Fileno Briganti e Nicola Melendez i quali, però, il 23 agosto s’arresero senza neanche combattere. I soldati borbonici si sbandarono, le guarnigioni abbandonarono le città e i forti di Altafiumara, di Torre Cavallo e di Scilla si arresero ai garibaldini.
A Napoli temendo lo sbandamento dell’esercito venne deciso di portare le truppe al di là del fiume Volturno facendo di Capua e Gaeta i capisaldi della difesa borbonica. Il 5 settembre Francesco II decise di lasciare Napoli e di andare a rifugiarsi nella fortezza di Gaeta per non sacrificare la città come era successo per Palermo.
Il 7 settembre, in un clima paradossale, con 6 mila soldati fedeli a Francesco II ancora nelle fortezze e nelle caserme, Garibaldi entrò nella capitale borbonica acclamato dalla folla napoletana. Immediatamente, la squadra navale del Regno delle Due Sicilie si consegnò nelle mani di Garibaldi che la mise, immediatamente, agli ordini dell’ammiraglio sabaudo Carlo Pellion di Persano.
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Prigionieri borbonici sulla linea del Volturno - 1860 - olio su tela - Museo centrale del Risorgimento - Roma |
Nel settembre del 1860, comunque, nonostante i rovesci militari, le fughe, le diserzioni e l’infedeltà della marina borbonica, la situazione militare sulla linea del Volturno era tutto fuorché definita.
Non a caso, il 21 settembre, l’esercito borbonico sconfisse duramente i 900 garibaldini comandati da István Türr che avevano precedentemente occupato l’avamposto di Caiazzo costringendoli a varcare il Volturno a costo di pesantissime perdite.
Il comando borbonico, però, seppur consapevole della propria superiorità tecnico-tattica e numerica, perse ben 10 giorni in discussioni e preparativi e decise di passare all’offensiva contro le truppe garibaldine soltanto all’alba del 1° ottobre.
I 30 mila soldati borbonici, comandati dal generale Giosuè Ritucci, che uscirono da Capua la notte del 1° ottobre attaccarono, contemporaneamente, alla destra e alla sinistra dello schieramento garibaldino posizionato lungo un ampio semicerchio che da Santa Maria Capua Vetere arrivava fino a Maddaloni-Ponti della Valle passando per le pendici del Monte Tifata e la zona di San Leucio e di Caserta vecchia. Di fatto, si svolsero due battaglie separate, una a destra e l’altra a sinistra degli schieramenti, anche se dall’esito dell’una dipendeva le sorti dell’altra.
Inizialmente, l’offensiva dei borbonici ebbe successo, riuscendo a sfondare alcune posizioni garibaldine e costringendo al ripiegamento alcuni avamposti dei volontari. Tuttavia, l’iniziale penetrazione dell’esercito borbonico venne vanificata dalla disorganizzazione dei comandi borbonici, dalla ferma resistenza dei volontari e da alcune coraggiose decisioni di Garibaldi, come quella di utilizzare tutti gli uomini di riserva pur di difendere le proprie posizioni.
La battaglia del Volturno del 1° e del 2 ottobre fu vinta dalle truppe garibaldine che, seppur combattendo una battaglia difensiva, seppero respingere tutti gli attacchi dell’esercito borbonico superiore per numero e per armamento ma senza un’adeguata conduzione militare. Il costo della battaglia per i garibaldini fu molto elevato: 1.600 uomini vennero messi fuori combattimento tra morti e feriti e 250 vennero catturati dai borbonici. Per i napoletani, invece, si contarono 1.220 soldati fuori combattimento e 2.200 prigionieri.
Nonostante il numero dei caduti, l’esito del combattimento non aveva modificato le posizioni sul campo di battaglia e l’alto Volturno, con l’esercito di Francesco II asserragliato a Capua e a Gaeta, era rimasto ancora sotto il controllo dell’esercito borbonico.
Il fattore che risulterà decisivo sulle sorti della campagna militare del 1860 fu l’intervento del governo sardo che, dopo aver negoziato il non intervento francese direttamente con Napoleone III, decise di inviare nello Stato pontificio un corpo di spedizione sabaudo, al comando del generale Manfredo Fanti, per “fermare la rivoluzione”, ovvero i garibaldini, che proveniva da Napoli.
Il 18 settembre, sui colli di Castelfidardo, le truppe sarde comandate dal generale Enrico Cialdini sconfissero quelle pontificie guidate dal generale Christophe Lamoricière e si diressero verso la piazzaforte di Ancona. Dopo la caduta di Ancona, il 29 settembre, re Vittorio Emanuele II assunse il comando supremo delle operazioni militari il 3 ottobre e varcò il confine del Regno borbonico penetrando in Abruzzo il 10 ottobre. Il 20 ottobre, le truppe sabaude di Cialdini sconfissero i borbonici e le bande contadine al passo del Macerone, occuparono Isernia e poi raggiunsero l’alto Volturno.
Il 21 ottobre, inoltre, lo svolgimento del plebiscito per l’annessione del Mezzogiorno al Regno sabaudo fece definitivamente cadere l’ipotesi mazziniana di convocare le elezioni per l’Assemblea costituente. Il 26 ottobre, infine, l’incontro tra Garibaldi e re Vittorio Emanuele II, al quadrivio di Taverna della Catena nei pressi di Teano, segnò il passaggio del comando delle operazioni militari all’esercito regolare sabaudo e sancì la definitiva ipoteca liberal-monarchica sul processo di unità nazionale.
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S. De Albertis - Incontro a Teano tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi - olio su tela - Luigi Medici Del Vascello La Mandria |
L’epilogo della spedizione garibaldina, che dalla Sicilia si era fermata ai confini dello Stato pontificio, avvenne nei primi giorni di novembre.
Il 7 novembre Garibaldi entrò a Napoli insieme a Vittorio Emanuele II, in carrozza, sotto una pioggia dirompente mentre il giorno seguente, in una cerimonia solenne, vennero presentatati ufficialmente i risultati dei plebisciti che sancivano l’annessione del Mezzogiorno al nuovo Regno d’Italia e Garibaldi firmò l’atto di rassegna della dittatura.
Il mattino del 9 novembre il nizzardo si imbarcò sul vapore Washington che lo portò a Caprera.