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L. Norfini - Silvio Pellico. Fu istitutore dei figli del conte Porro-Lambertenghi e venne processato insieme a Pietro Maroncelli - olio su tela - Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti - Firenze |
Stabilitosi ventenne a Milano, divenne amico di Foscolo, il quale lodò la sua prima tragedia, Laudamia; ma gli consigliò di buttare al fuoco la seconda, Francesca da Rimini. Questa invece, rappresentata il 18 agosto 1815, ebbe grande successo, e durò poi applauditissima sulle scene per oltre mezzo secolo.
Scoppiata nel 1816 la polemica tra classicisti e romantici, Pellico, dopo qualche esitazione, si schierò con questi ultimi, e nel 1818 (dopo che da qualche tempo era entrato in casa del conte Luigi Porro Lambertenghi come segretario e precettore, collaborò attivamente al «Conciliatore».
Soppresso il periodico, pubblicò una nuova tragedia, Eufemio di Messina (1820), e, diventato amico di Pietro Maroncelli, fu da questo aggregato alla carboneria.
Arrestato il 13 ottobre 1820, fu condannato (1821) alla pena di morte, commutata poi in venti anni di carcere duro da scontarsi nello Spielberg, dove giunse il 10 aprile 1822.
Ne uscì graziato alla fine di agosto del 1830, ma assai mal ridotto dalle sofferenze fisiche e morali. Riprese tuttavia a Torino la sua attività letteraria; pubblicò quattro cantiche (novelle in versi sciolti di argomento medievale) e alcune tragedie (Ester d'Engaddi e Igina d'Asti, composte in carcere a Venezia; Leoniero da Dertona, composta allo Spielberg, poi Gismonda da Mendrisio ed Erodiade).
Di famiglia religiosissima, in gioventù si era allontanato dalla fede per tornarvi poi negli anni del carcere: scrisse le sue memorie di prigionia allo scopo di dimostrare, col suo esempio, di quale conforto sia la religione nella sventura.
Le mie prigioni (1832) furono accolte con grande favore, soprattutto per l'equilibrio di Pellico nel giudicare i suoi stessi carcerieri e per la nitidezza della rappresentazione, lontanissima dal vaporoso sentimentalismo allora di moda e di cui le altre opere dello stesso Pellico sono perfuse.
La popolarità del libro portò a una conseguenza non prevista dall'autore, e cioè che l’opera, più che alla propaganda etico-religiosa, servì a quella patriottica, prima in Italia e poi anche all'estero, dove ebbe ristampe e numerose traduzioni, suscitando ovunque simpatia per l'Italia e odio contro lo straniero.
Di ciò ben s'accorse Metternich, che invano tentò di far confutare il racconto di Pellico e di farlo mettere all'Indice; non ebbe torto chi disse (ma non fu Metternich, come vuole la tradizione) che esso danneggiò l'Austria più di una battaglia perduta.
Nel 1834 Pellico pubblicava I doveri degli uomini, trattatello tutto ispirato dalla morale religiosa, che ebbe larga diffusione come libro di pia lettura e come testo scolastico. Il nuovo atteggiamento di Pellico gli suscitò contro le opposte diffidenze dei cattolici reazionari e dei liberali più accesi: questi ultimi si sentirono anche più maldisposti verso di lui quando divenne amico e poi anche segretario dei marchesi di Barolo, che avevano fama di reazionari.
L'insuccesso d'una nuova tragedia, Corradino (1834), persuase Pellico a non scriverne più; nel 1837 pubblicò invece due volumi di Poesie inedite (sette cantiche e molte liriche, per lo più di argomento religioso); intraprese anche, ma non condusse a termine, un'autobiografia.
Sono i primi giorni di prigionia di Pellico nel carcere moravo con l’apprendimento alle nuove e durissime condizioni di esistenza.
S. Pellico, Le mie prigioni, Milano, Mondadori, 1986, pp. 149-150, 159.
È il capitolo forse più celebre delle Mie prigioni quello dedicato all’amputazione della gamba di Pietro Maroncelli, il cui comportamento stoico diventò nelle letture risorgimentali il simbolo della resistenza alle durezze del dominio austriaco.
S. Pellico, Le mie prigioni, Milano, Mondadori, 1986, pp. 193-195.
In queste righe Aldo Mola ricostruisce l’imbarazzo delle autorità austriache di fronte al grande e istantaneo successo del libro di Pellico e spiega perché preferirono non replicare e mantenere il silenzio.
Le mie prigioni. Memorie di Silvio Pellico da Saluzzo, a cura di A.A. Mola, Foggia, Bastoni Editrice Italiana, 2004, pp. 27-28.