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I dizionari biografici del Risorgimento danno di lei poche e contraddittorie notizie. Nata a Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina nel 1826 secondo alcuni, nel 1841 secondo altri, «frutto degli illeciti amori di un tal Antonino Mazzeo, sensale di agrumi», è nota ora come Giuseppa Bolognari dal nome della nutrice alla quale viene affidata in assai tenera età, ora come Giuseppa Calcagno, secondo un’altra versione che la vuole invece affidata dalla locale Congregazione di carità a certa Maria Calcagno, “nutrice di trovatelli”.
L’iconografia ne fa risaltare il bell’aspetto, mentre altre fonti testimoniano la bruttezza del suo viso, butterato dal vaiuolo. Incerta la professione, forse serva di un oste catanese e poi aiutante stalliere in un fondaco e rimessa di carrozze da nolo; più certa la sua cattiva reputazione («Benché come donna virtuosa non fosse molto stimata»...) dovuta anche al suo legame con un ragazzo molto più giovane di lei (“il giovinetto Vanni”).
Di certo partecipa alla insurrezione del 31 maggio 1860 che ha per teatro le strade e le piazze di Catania, dove le squadre popolari, male armate, guidate dal colonnello Poulet, tengono coraggiosamente testa, per ben sette ore, a oltre duemila soldati borbonici, comandati dal generale Clary, barricatisi nella piazza dell’Università, costretti ad abbandonare la città in mano ai rivoltosi. La giovane si distingue per due atti di valore – il primo, avvenuto nei pressi della Piazzetta Ogninella, e l’altro, nella Via Mazza, in prossimità dell’attuale Piazza San Placido – per i quali viene persino decorata con una medaglia di argento (o forse di bronzo) al valore militare.
Il secondo atto eroico di Peppa è così narrato da uno storico locale: «Era già mezzogiorno, e gli insorti avevano quasi esaurito le munizioni, sicché il loro attacco incominciò ad infiacchire; di ciò si accorse il generale Clary, che cercò con una carica di cavalleria per la Via del Corso (l’attuale Via Vittorio Emanuele) di aggirare la destra dei suoi avversari. Giusto in quel punto, un gruppo di insorti, con alla testa Giuseppa Bolognara, sboccava in piazza San Placido dalla cantonata di Casa Mazza, trascinando il cannone guadagnato ai borbonici, per cercare di condurlo sul parterre di casa Biscari e lanciare qualche palla contro la nave di guerra che già bombardava la città, coadiuvata dal fuoco di due mortai posti sui torroni del Castello Ursino. Appena però quei popolani sboccarono sulla Via del Corso, videro in fondo a Piazza Duomo due squadroni di lancieri che si apparecchiavano alla carica.
Temendo d’essere presi, scaricarono all’improvviso i loro fucili, abbandonando il cannone già carico; ma Giuseppa Bolognara restò impavida al suo posto e con grande sangue freddo improvvisò uno stratagemma dando nuova prova del suo meraviglioso coraggio. Sparse della polvere sulla volata del cannone e attese tranquilla che la cavalleria caricasse; appena gli squadroni si mossero, essa diede fuoco alla polvere ed i cavalieri borbonici credettero il colpo avesse fatto cilecca prendendo soltanto fuoco la polvere del “focone”. Si slanciarono perciò alla carica, sicuri di riguadagnare il pezzo perduto: ma, appena avvicinatisi di pochi passi, la coraggiosa donna, che li attendeva a piè fermo, diede fuoco alla carica con grave danno degli assalitori, e riuscì a mettersi in salvo».
L’epiteto di Peppa la cannoniera che l’ha resa famosa, deriva da questo episodio in occasione del quale, insieme ad un gruppo di popolani e al giovanissimo Vanni, suo compagno di avventure, che non sopravvive a questa impresa, si impadronisce di un cannone, abbandonato dai soldati borbonici e, caricatolo sopra un carro, lo mette in salvo a Mascalucia, quartier generale delle truppe rivoluzionarie. Per i suoi servigi gode di una pensione di 9 ducati mensili dal Comune di Catania che pretende erogati nell’unica soluzione di una gratifica di 216 ducati. «Poche sono le pagine dell’Istoria in simili casi che le donne si abbiano combattuto per la Patria con tanto coraggio e migliore di un uomo» e il pittore Giuseppe Sciuti le dedica una tela, conservata nel Museo del Risorgimento di Catania, mentre un’effige scolpita in gesso la ricorda ancora oggi nel Museo Nazionale di Palermo.
Peppa è un simbolo della partecipazione popolare all’insurrezione contro i Borboni, a cui segue la trasformazione della “spinta bruta” delle giornate insurrezionali nella più affidabile, meno spontanea e interamente maschile Guardia nazionale e ripete una sequenza già verificatasi nel 1848. Le squadre, composte per lo più da elementi provenienti dalle campagne rappresentano la risposta più istintiva della vendetta popolare contro “birri”, “dazieri”, “esattori del macino”, l’amministrazione di una giustizia sommaria; la loro esistenza precaria è legata a fonti di finanziamento spesso illegittime, quali il furto, la rapina, lo scrocco. La smobilitazione delle squadre indica il passaggio del governo dell’insurrezione ad una élite borghese che affida alla Guardia nazionale il controllo dell’ordine pubblico.
Nel 1848 l’epigona di Peppa la cannoniera si chiama Teresa (forse Anna o anche Maria) Testa di lana (anche questo un epiteto) che, dapprima considerata un’eroina della rivoluzione, poiché non si rassegna al disarmo cui le squadre popolari sono sottoposte al momento dell’organizzazione della Guardia nazionale, viene arrestata come «caposquadra di una torma di malintenzionati, imputata di asportazione di armi in contravvenzione ai regolamenti in vigore nonché di altri reati». L’una e l’altra vestono da uomo, Teresa «in foggia strana, e se la cintura è ornata di pugnale e di pistole, non le manca la sciabola che porta ad armacollo». Peppa è più lungimirante di Teresa che scrive dal carcere minacciando il suicidio se non le si rende giustizia: dopo aver partecipato alle azioni militari, cacciate le truppe nemiche, fa da vivandiera della Guardia nazionale e prende parte all’espugnazione di Siracusa. Le gesta compiute la autorizzano a gettare per sempre in un angolo le sottane, che sostituisce con abiti maschili. La nostra eroina passa il resto della vita comportandosi degnamente nel nuovo ruolo assunto, «nei bivacchi e nelle caserme aveva preso l’abito del bere e del fumare».
Fino al 1876 la si incontra a Catania, poi sparisce: secondo alcuni, sarebbe tornata a Messina dove cade nelle mani di usurai a cui cede la pensione e dove muore nel 1884 secondo alcuni, nel 1900 secondo altri, lasciandoci nell’incertezza anche per questo ultimo dato della sua vita. Peppa e Teresa rappresentano lo stesso “vizio originario” di cui soffrono le rivoluzioni del 1848 e del 1860: quello di dovere la liberazione dalle truppe borboniche alla spontanea organizzazione dell’elemento popolare che regge lo scontro militare nei giorni dell’incredulità, quando l’incertezza paralizza molti degli uomini che di lì a poco si porranno alla testa del processo politico. La presenza di donne indica la radicalità delle aspettative di riscatto. Numerose signore aristocratiche e borghesi favoriscono l’azione dei liberali nel 1848, talvolta annoverate tra le “ispiratrici”; molto più numerose tra le popolane le “eroine” e le “donne d’eccezione”: le une e le altre credettero di partecipare nel 1860 ad un processo di rinascita, per l’appunto il Risorgimento, da cui sarebbe nata anche per le donne una condizione di maggiore eguaglianza e di libertà.
Giovanna Fiume