» Deledda Grazia  
1871 - 1936
 


 

 
Archivio "Noi donne", Roma  

Trentasei romanzi, 250 racconti, due drammi teatrali, pochi versi, un libretto d’opera, la sceneggiatura per il film che fu tratto dal romanzo Cenere (interpretato da Eleonora Duse), una raccolta di tradizioni popolari sarde: l’opera di Grazia Deledda è imponente. Lei era piccolissima: 1,54 di altezza. Ma nulla la scoraggiava. Riuscì, con la sola forza della sua determinazione, a evadere dagli angusti confini di Nuoro, dove era nata il 27 settembre del 1871, per diventare – approdata a Roma agli inizi del 1900 – uno degli scrittori più famosi in Italia e all’estero. Nel 1926 fu insignita del Premio Nobel.

Per conoscerla, come donna e come scrittrice, conviene cominciare dall’autobiografia in terza persona Cosima, uscita postuma nel 1937, a pochi mesi dalla morte, avvenuta a Roma il 15 agosto del ‘36. Il libro si apre con la descrizione della casa nuorese “grande e solida”, che somiglia strutturalmente alla scrittura della Deledda, limpida e affettuosa, concreta e insieme capace di aprirsi a improvvisi tagli favolistici. Cuore della casa era la cucina, sede delle donne e incrocio di chiacchiere dove la giovane Grazia imparava a conoscere l’animo umano e a desiderare l’evasione. Era un luogo la Sardegna, e la Barbagia dentro la Sardegna, in cui una donna che amava leggere veniva guardata con sospetto. Quando usciva, una ragazza non maritata era costretta a nascondere i capelli sotto il foulard. A scuola non si andava oltre le elementari.

Animata da un precoce bisogno di emanciparsi e da una segreta quanto chiara vocazione letteraria, Grazia Deledda riempì autonomamente le lacune della sua educazione, leggendo qualsiasi libro le capitasse a tiro, dalla Invernizio a Tolstoj. I suoi primi esercizi poetici e narrativi muovevano da influenze decadentiste e tardo romantiche verso più congeniali ispirazioni veriste. Una vena artistica percorreva la famiglia sia per parte materna che paterna. La madre, Francesca Cambosu, che parlava in dialetto e vestiva sempre in abiti tradizionali, era figlia di un uomo stravagante che si era ritirato sui monti a fare statuine di creta; mentre il padre, Totoni, era un uomo d’affari che amava la poesia e partecipava alle gare trovadoriche di paese. Quando morì, nel 1892, scompariva l’unica persona che capiva le grandi ambizioni della scrittrice in erba.

A soli 15 anni Grazia cominciò a pubblicare le sue novelle, consegnandosi alla riprovazione della chiusa società sarda. L’unica chance per perseguire un destino artistico era lasciarsi la Sardegna alle spalle e con questo fine ben fisso in mente stabilì subito coraggiosi contatti con le riviste femminili più in vista del continente, alle quali affidò i primi racconti per la pubblicazione, e con alcuni intellettuali che, colpiti dalle sue lettere e dal suo genio, accettarono di corrispondere con lei e di aiutarla. Ottenne così il sostegno e l’amicizia, per esempio, dello studioso di tradizioni popolari Angelo De Gubernatis e del critico manzoniano Ruggero Bonghi. Il primo la coinvolge in una grande ricerca sul folclore sardo, che si rivelerà utilissima nella formazione della sua poetica e riemergerà qui e là nell’opera con significative accensioni favolistiche; il secondo firmerà la prefazione del suo primo romanzo importante, Anime oneste, nel 1895. L’anno seguente, con La via del male, Deledda ottiene una recensione elogiativa di Luigi Capuana che la impone decisamente.

Così, quando cinque anni dopo si trasferisce a Roma grazie al matrimonio con Palmiro Madesani, funzionario ministeriale nato nel Mantovano, è un trionfo: i salotti della capitale accolgono benevoli e incuriositi la giovane scrittrice di provincia che consolida di anno in anno una crescente popolarità. Da Elias Portolu a Cenere a Colombi e sparvieri, Canne al vento, L’incendio nell’uliveto, La madre, Il segreto dell’uomo solitario e tutti gli altri, i suoi romanzi incontrano favore critico e gusto del grande pubblico.

Intanto la vita privata procede riservata e tranquilla. Grazia abita con il marito e due figli, Francesco (Franz) e Sardus, in un villino del nuovo quartiere romano Italia, dove avevano trovato casa anche le due amate sorelle, Pina e Nicolina; non frequenta l’ambiente dei salotti, se non di tanto in tanto quello della contessa Lovatelli. Ma non è un’isolata, non è la «massaia primitiva che scrive per un sorprendente talento naturale», come un’iconografia riduttiva ha voluto far credere. In realtà Grazia Deledda era un’intellettuale sottile, colta e informata, che intratteneva rapporti significativi con molti scrittori e artisti del tempo. Era una presenza assidua, per esempio, nella redazione della rivista letteraria Nuova Antologia, dove incontrava De Amicis, Fogazzaro, D’Annunzio, Pirandello, Mascagni...

Ma è soprattutto d’estate, quando con Nicolina e i bambini va in villeggiatura a Viareggio (fino al 1920) che approfondisce relazioni intellettuali vivificanti. Nicolina era una pittrice non banale e con lei Grazia entra in contatto con il gruppo di pittori toscani, da Plinio Nomellini ad Arturo Dazzi, da Moses Levy a Lorenzo Viani. Si riuniscono tutti nella bella casa di Giacomo Puccini a Torre del Lago e passano serate che possiamo immaginare ricche di spirito e di una calda amicizia. Anche in seguito, quando a una Viareggio diventata troppo mondana sostituì Cervia sull’Adriatico, seppe ricreare un gruppo di amicizie artistiche: vedeva regolarmente Marino Moretti (che abitava nella vicina Cesenatico), Filippo De Pisis, Giuseppe Ungaretti, Alfredo Panzini. Dell’amicizia con Moretti resta un interessante epistolario. E importanti per capire la personalità della scrittrice e l’origine di certi suoi nodi narrativi sono anche le molte lettere scritte nella giovinezza, non solo ad alcuni intellettuali del tempo, ma anche agli innamorati.

Fra questi occupa un posto fondamentale Stanis Manca, critico teatrale della Tribuna, del quale Grazia fu perdutamente innamorata fra i venti e i trent’anni (e con il quale fece i “conti” definitivi in un libro della maturità, Il paese del vento, in cui adombra la vicenda autobiografica). La delusione d’amore, l’umiliazione che derivarono dall’infelice rapporto con l’affascinante giornalista segnarono intensamente la sua vita come la sua opera.

È stato notato (da Vittorio Spinazzola, per esempio) come nei romanzi deleddiani l’eros fallisca sempre e trionfi l’etica. C’è in quasi tutte le sue trame un’identica evoluzione: una passione travolgente e infelice che viene espiata nella sublimazione e nell’ascetismo. Questa ripetitività portò Natalino Sapegno a vedere «immobile e priva di sviluppo» un’opera che appare invece oggi straordinariamente ricca nelle variazioni e nell’approfondimento dei pochi temi di base. Centrale è quello della contrapposizione fra universo maschile e femminile.

Partendo dall’osservazione di ciò che la circondava (i nevrotici maschi della sua famiglia, dal nonno artista al padre fallito ai fratelli, uno bandito e uno distrutto dalla depressione e dall’alcol) Deledda costruisce personaggi maschili che, se non sono virilmente contro la legge, presentano quella che lei definisce «un’incrinatura» dello spirito. Cosi è Elias Portolu, così il Giacinto di Canne al vento, così Paulo nella Madre, o Cristiano nel Segreto dell’uomo solitario. Sono uomini che non sanno governare la potenza di eros (spesso al limite della perversione e dell’incesto) e soccombono sotto la propria fragilità, di tanto inferiori al coraggio di donne determinate e passionali, inutilmente forti, perché la società le schiaccia rendendole mute e impotenti. A salvare questi personaggi dal male in cui li precipita il desiderio, non c’è che la via del sacrificio.

Ma il sacrificio non è per Deledda una soluzione salvifica, non c’è nella sua poetica alcun intento assolutorio o moralistico, ma unicamente descrittivo. La tragicità è insita nella vita, ed è l’incapacità (generalmente maschile) di assumere la responsabilità dei propri istinti a radicalizzare il male. Rileggendo in questa chiave Grazia Deledda e sistemando intorno alla centralità del tema erotico (capito perfettamente da D.H. Lawrence) anche il suo splendido panteismo, la sua «ieraticità biblica» e il suo «verismo folclorico» (per usare ancora Spinazzola), si può tornare a leggerla oggi con attualità e sorpresa insospettabili.

Sandra Petrignani