» Duse Eleonora  
1858 - 1924
 


 

 
Fondazione "Il Vittoriale degli Italiani", Gardone Riviera  

Eleonora Duse è nata a Vigevano il 3 ottobre 1858 da Alessandro e Angelica Cappelletto, attori di origine veneta (Chioggia) e di scarsa fortuna. Se al nonno paterno non era a suo tempo mancato il successo quando dirigeva, con un repertorio quasi esclusivamente goldoniano, il suo teatro di Padova, ha però lasciato al figlio in eredità solo un modesto talento: recita con una compagnia di girovaghi che si esibiscono per lo più nel Lombardo-Veneto durante le fiere e le festività patronali.

Dopo aver visto la luce in una stanza d’albergo, l’infanzia e l’adolescenza di Eleonora sono appunto segnate dal continuo vagabondare da un luogo all’altro, dove conosce i disagi e gli stenti che la segneranno per sempre.

Morta nel 1875 la madre in un letto d’ospedale, la giovinetta, che già da anni recita su quello che usa chiamare il “tavolaccio”, contrae un’affezione polmonare che mai riuscirà a debellare. Senza contare che il nomadismo le ha impedito di frequentare le scuole (il padre le insegna a leggere) e i coetanei, facendole patire la dolorosa “diversità” che il suo grande temperamento riesce tuttavia a trasformare in precoce forza drammatica.

Dalle memorie che ci ha lasciato, specie quando le sue confidenze sono consegnate a chi ha saputo trasmetterle con intensa partecipazione (Primoli, la Serao o D’Annunzio), risulta inquieta e sensibilissima, mentre la sua non spiccata avvenenza contrasta con il fascino che le conferisce l’arte interpretativa, dotata com’è Eleonora di straordinarie virtù di trasfigurazione.

Il primo trionfo della quattordicenne, a Verona, come interprete di Giulietta, ci avverte che il segreto dell’attrice è la totale coincidenza con il personaggio: «Io fui Giulietta. ...Ah, la grazia, lo stato di grazia! Ogni volta che m’è dato di toccare il culmine della mia arte ritrovo quell’indicibile abbandono. Fui Giulietta». E questa perdita dei propri connotati per assumerne altri è frutto non solo di lunghi studi ma anche di una profonda pulsione: è invincibilmente attratta dalla metamorfosi e il suo volto mobilissimo non ha perciò bisogno del trucco per calarsi nell’eroina che interpreta.

Di lì a qualche anno la carriera di Eleonora è già avviata e la trasferta a Napoli nel 1878, con il padre, risulta determinante. Nel prestigioso teatro dei Fiorentini la prima donna è l’abile ed esperta Giacinta Pezzana, che valorizza le attitudini ancora acerbe della giovane già in grado, però, di imporsi all’esigente pubblico partenopeo esibendosi in Teresa Raquin di Zola. Il suo talento non sfugge a Giuseppe Primoli e a Matilde Serao, con i quali l’esordiente stringe un’amicizia che si rivelerà duratura e decisiva per la scelta delle future interpretazioni.

Ormai ventenne, anche l’amore sboccia a Napoli. L’affascinante Martino Cafiero, giornalista di punta della città, la seduce per poi abbandonarla con il “figlio della colpa” che morirà subito dopo la nascita, quando Eleonora si è trasferita a Torino aggregandosi con la Pezzana alla compagnia di Cesare Rossi. La bruciante delusione sentimentale troverà presto compenso nel matrimonio con Tebaldo Checchi (1881), attore di qualche pregio ma subito disposto a vivere all’ombra della moglie, nella nuova maternità (Enrichetta nasce nel 1882) e nella conquista del ruolo di prima donna che compete con le attrici nostrane - si chiamino pure Adelaide Ristori - e persino con la “magnifica” Sarah Bernhardt.

Il repertorio di Eleonora ha cominciato infatti a spaziare nel territorio francese. La scarsa drammaturgia italiana mal soddisfa del resto le esigenze del rinnovamento teatrale che si va profilando nel paese da poco unito: Feydeau, Sardou, Feuillet, Scribe, Pailleron o Dumas figlio vengono tradotti, figurando nei cartelloni assai più che non Shakespeare e i nostri Torelli o Giacosa. È vero che alla Duse va il merito di aver portato al successo, nel ruolo di Santuzza, Cavalleria rusticana di Verga (1884); tuttavia il verismo, allora da noi imperante, non vibra con le sue corde. Ben altro sarà pertanto il trasporto con il quale interpreta Denise, dramma che Dumas, sollecitato da Primoli, compone per lei nel 1885.

I lunghi mesi della sua prima tournée sudamericana segnano, l’anno successivo, una vera e propria svolta. Eleonora si separa dal marito, che resta a Buenos Aires, e si lega sentimentalmente con Flavio Andò, attore di successo benché di qualità limitate. Apprende inoltre, senza comunque farne tesoro, che la trasferta d’oltreoceano, per quanto fortunata, non si è risolta con utili significativi: le mancano quelle capacità imprenditoriali che le sarebbero necessarie ora che ha deciso di fondare con Andò una propria compagnia. Siamo nel 1887 e il repertorio è quello di sempre, dominato da Sardou e Dumas, anche se vi compaiono il Goldoni della Pamela nubile e il Giocosa di Tristi amori. Prima che la sua totale adesione vada a Ibsen, Maeterlinck e D’Annunzio, è attratta da Shakespeare, che l’Otello verdiano, grazie al libretto di Arrigo Boito, ha allora riportato alla ribalta.

Proprio il quarantenne Boito, musicista e letterato di fama, con il quale Eleonora avvia una relazione amorosa destinata a protrarsi per un decennio, le procurerà una riduzione di Antonio e Cleopatra; e tramite Boito l’attrice entra in intimità con Giacosa, Calandra e Marco Praga. Oltre a impadronirsi della lingua francese, in questo torno d’anni accresce la propria cultura e affina le sue doti esibendosi anche all’estero (Egitto e Spagna nel 1889-‘90).

Altalenante la relazione con Boito, scapolo incallito alle prese con il libretto del Falstaff per Verdi e la composizione di un suo interminabile Nerone, Eleonora trova nel lavoro la pienezza che le manca negli affetti. Aveva sognato una quieta vita famigliare, con Arrigo ed Enrichetta; dovrà ripiegare su incontri furtivi poiché il marito minaccia di toglierle la figlia, peraltro affidata al collegio e, come la madre, di salute malferma, mentre l’amante, saldamente ancorato all’ambiente milanese, giudica il teatro di prosa una forma d’arte minore rispetto al teatro lirico. Sarà perciò contro il parere di Boito che l’attrice presenta a Milano Casa di bambola di Ibsen prima di partire, nel 1891, alla volta della Russia con la sua compagnia, ovvero con “l’ignoranza” come dice «che devo rimorchiare a furia di polmoni».

A San Pietroburgo la Duse riscuote un successo straordinario con la Signora delle camelie di Alexandre Dumas che il pubblico russo conosceva nell’interpretazione della Bernhardt, e con Antonio e Cleopatra che suscita l’entusiasmo di Cecov: «Non conosco l’italiano, ma la Duse ha recitato così bene che mi è sembrato di comprendere ogni parola». A Mosca e a Kiev furoreggia poi con la Locandiera di Goldoni e tale è la risonanza dell’evento teatrale che la sua fama dilaga in Austria e in Germania dove si esibirà nel 1892 sommersa dagli applausi di Schnitzler, Bahr, Hofmannsthal, Sudermann, Hauptmann... che salutano in lei la “prima interprete dell’arte psicologica”. E in effetti la Duse è inarrivabile nello scavo interiore quanto mai lontano dal divismo spettacolare della Bernhardt. Con sobri abiti di scena, priva di trucco, Eleonora recita senza enfasi, ma sapendo sorridere, piangere o arrossire con la naturalezza che le accattiverà il pubblico nordamericano e inglese nelle tournées del biennio 1893-‘94, quando Edison registra la sua voce, è ricevuta sia dal presidente Clevelend che dalla regina Vittoria e Bernard Shaw dichiara che non ha rivali nel mondo.

Al culmine del successo, i cospicui guadagni le consentono l’acquisto di un appartamento veneziano sul Canal Grande. Ed è qui, durante un periodo di riposo nel settembre 1895, che Eleonora conosce Gabriele D’Annunzio. Delusa dal legame inconcludente con Boito e scontenta del proprio repertorio, l’attrice sembra aver trovato in Gabriele ciò che da tempo andava cercando. Tanto più che, acclamato come lei in Europa, poeta e narratore, D’Annunzio si dà subito al teatro, anche se la sua prima pièce verrà rappresentata a Parigi dalla Bernhardt (La Ville morte, 1898).

Possessiva Eleonora, già verso la quarantina, infedele Gabriele, minore di lei di cinque anni, fra i due divi non mancano invero i contrasti che non vengono sanati neppure dal progetto comune di un grande teatro en plein air da costruire ad Albano, alle porte di Roma. Per realizzarlo sarebbero necessari gli introiti che i drammi composti da D’Annunzio fra il 1896 e il 1901 – La Città morta, Sogno di un mattino di pri mavera, La Gioconda, La Gloria, Francesca da Rimini – non assicurano, benché l’attrice, che ha formato nuove compagnie volta a volta con Ermete Zacconi, Luigi Rasi e Virgilio Talli, non risparmi risorse negli allestimenti scenici e si sottoponga a pesanti trasferte “all’orlo della carta geografica”, dalla Germania al Portogallo, dalla Francia agli Stati Uniti, dall’Egitto all’Inghilterra. Ma il teatro dannunziano, ideologico e superomistico, fatica ad affermarsi e solo la Figlia di Iorio, composta nel 1903, sarà l’indiscusso capolavoro, coronato dal successo, che Gabriele nega a Eleonora, allora malata e comunque troppo in là con gli anni per interpretare il ruolo di Mila.

Più convincente il poeta del drammaturgo, negli anni di convivenza con l’attrice, quando i due divi si trasferiscono a Settignano, sui colli di Firenze, scorrono fiumi di poesia – le Laudi – ispirate dalla Musa che crede ciecamente nell’amante fedifrago, disposta a tollerare, in nome dell’arte, i toni crudi con i quali la ritrae nel Fuoco (1900), il romanzo veneziano in cui veste i panni della Foscarina, una patetica attrice sul viale del tramonto.

La separazione, nel 1904, è traumatica per la Duse. Se D’Annunzio le tributerà poi un culto, ammettendo con gli anni di doverle un lustro di prodigiosa operosità, Eleonora patisce come una disfatta la fine della favola bella in cui si era illusa di aver abolito i confini tra la scena e la vita. Non le resta, ancora una volta, che l’“oblio del lavoro” sperimentando ammirevolmente nuove forme drammatiche e di recitazione. Alla ripresa di Ibsen, accantonato, come il suo vecchio repertorio, per favorire i drammi di D’Annunzio, si accompagna ora L’albergo dei poveri di Gorkij. Conosce la Duncan, Caruso, Reinhardt, Craig e Lugné-Poe, direttore del teatro dell’Oeuvre di Parigi, che con la moglie, l’attrice Suzanne Desprès, rappresenta per Eleonora una sorta di famiglia che la risarcisce dei fallimenti sentimentali.

Dopo alcune esibizioni parigine e londinesi, è il Nord Europa ad attirarla: desidera interpretare Ibsen in Norvegia e soprattutto conoscere il drammaturgo ma le sue condizioni di salute sono così gravi che l’incontro non ha luogo. Spesso malata anche Eleonora, questa del 1906 e quella sudamericana dell’anno successivo sono le ultime grandi tournées, visto che una volta rientrata in patria reciterà in varie città italiane, ma sporadicamente, con le scenografie di Craig e un successo via via decrescentementre paradossalmente si afferma il suo mito.

Quando nel 1908 Enrichetta sposa Edward Bullough, un insegnante di Cambridge, la carriera della Duse è giunta al termine: voleva, e ha ottenuto, per la figlia un destino diverso dal suo. Non si tratta però di un quieto tramonto poiché non tralascia la vita nomade che ha sempre condotto. Nei suoi viaggi, ora, l’accompagnano giovani donne che avvince a sé con un morboso amore materno, abbraccia le idee del femminismo e fonda a Roma una “casa-libreria” per giovani attrici che vi trovino rifugio e insieme la possibilità di istruirsi. Ma i tempi sono cambiati gli artisti girovaghi sono una specie ormai estinta. Sarà invece la guerra a offrire a Eleonora la possibilità di esprimere la sua ansia di soccorrere i giovani e i deboli. Intrattiene fitte corrispondenze con alcuni soldati (una di queste, La nostra salvezza, viene pubblicata per iniziativa di Papini) mentre si divide tra Firenze e la Versilia, abitando i luoghi che un tempo d’Annunzio, grazie a lei, ha cantato nei versi di Alcyone.

Con la guerra, Eleonora riprende il lavoro. Il cinema l’attrae e riduce personalmente per lo schermo, facendosi nel 1915 imprenditrice con il torinese Ambrosio, il romanzo Cenere di Grazia Deledda. Segue attentamente la regia di Fabio Mari e si occupa del montaggio con una cura maniacale che le toglie le forze. La morte di Boito, nel 1918, e insieme di Tebaldo Checchi, la induce a ripiegare nei ricordi e in un’amarezza accentuata dalle precarie condizioni economiche che l’inducono a riprendere il lavoro.

Dopo un periodo di riposo trascorso ad Asolo, nel Veneto delle sue origini, ricompare nel 1921 nel piccolo teatro Balbo di Torino con La donna del mare di Ibsen: sono con lei Ermete Zacconi, Fabio Mari e Gabriellino D’Annunzio, figlio trentacinquenne del poeta. Fra il pubblico, Piero Gobetti e Silvio D’Amico l’acclamano e scrivono entusiastiche recensioni. Il successo si ripete a Milano, dove Eleonora incontra D’Annunzio per chiedergli i diritti della Città morta, e a Roma, dove progetta di interpretare La vita che ti diedi, il dramma composto per lei da Pirandello. Ma parte per Londra e quindi s’imbarca alla volta di New York nell’ottobre 1923. La tournée prevede rappresentazioni anche nella costa orientale e a Los Angeles l’attrice è ammirata da Chaplin.

Durante la tappa di Pittsburg, espostasi alla pioggia battente, la Duse si ammala e muore il 21 aprile del 1924. Prima di chiudere gli occhi per sempre ha espresso il desiderio di tornare ad Asolo dove è sepolta dopo che Mussolini, sollecitato da D’Annunzio, ha traslato la salma in patria concedendole solenni funerali nella chiesa romana di Santa Maria degli Angeli.

Annamaria Andreoli