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Mistica, visionaria e stigmatizzata, fu proclamata santa nel 1940 da Pio XII. Bellissima, di famiglia agiata, la sua breve vita fu scandita da disgrazie e segnata dalla malattia e dalla morte. La tubercolosi le portò via prima la giovane madre, poi l’amato fratello maggiore e infine colpì lei stessa. Il padre morì precocemente di cancro, lasciando in miseria gli altri sette figli e obbligando Gemma ad essere accolta da una famiglia di benefattori in una condizione a metà tra l’ospite e la domestica.
La sua prima formazione fu segnata dall’esempio della madre devotissima e poi da quello della maestra, la futura beata Elena Guerra, fondatrice delle zitine: si replicava così il caso assai frequente nella storia della santità del rapporto di filiazione spirituale tra santi. A soli sette anni, il giorno della cresima ebbe la prima manifestazione di Gesù e iniziò una vita tutta dedicata alla preghiera e scandita dalla comunione quotidiana. La sua istruzione, come era costume all’epoca per le fanciulle, fu breve e limitata.
Non aveva neppure una buona conoscenza teologica: aveva letto poco, in particolare le opere di Alfonso de’ Liguori e le vite dei santi. Nonostante ciò, fu una prolifica scrittrice (autobiografia, diario, lettere, descrizione delle estasi) e le sue lettere ebbero tale successo da essere utilizzate, senza menzionarne l’autrice, anche da Padre Pio. Soggetta a fenomeni psichici e fisici misteriosi e straordinari, cominciò ad applicarsi alla contemplazione della Passione, bramando di condividere i dolori e le pene fisiche di Gesù: di qui, secondo la spiegazione degli agiografi, il continuo manifestarsi di infermità e della grave tisi che la consumò fisicamente.
Gemma, come le altre visionarie dell’età contemporanea – Teresa di Lisieux, Bernadette Soubirous, alle quali del resto fu spesso paragonata – traduceva la malattia tipica dell’epoca, cioè la tisi che la porterà giovanissima alla morte, in occasione ed espressione di santità. La malattia mortale, già assai presente ed emblematica nella cultura laica del tempo, venne vissuta da lei e interpretata dai biografi sia come un segno di elezione divina, sia soprattutto come offerta di una giovane e innocente vittima sacrificale in espiazione dei peccati del mondo secolarizzato.
Fatto voto di castità e vestitasi quasi da monaca, con mantello e un curioso cappello che ne mortificava la bellezza, tentò più volte di farsi ammettere in un monastero ove rifugiarsi e che sostituisse i genitori e la famiglia perduti - «sono senza babbo, senza mamma e senza quattrini e non ho chi mi aiuti», scriveva - ma incontrò costantemente rifiuti, anche per la diffidenza che suscitavano il suo spinto misticismo e le manifestazioni psichiche e fisiche cui era soggetta.
Era, infatti, entrata in una intensa fase di doni spirituali: estasi, locuzioni divine, illuminazioni, apparizioni celesti, unione con Dio, partecipazione alla Passione, visite dell’angelo custode e del futuro santo passionista Gabriele dell’Addolorata, matrimonio mistico.
Nell’autobiografia descrive con grande efficacia l’esperienza delle stimmate che Gesù in persona le avrebbe procurato, apparendole con «tutte le ferite aperte; ma da quelle ferite non usciva più sangue, uscivano come fiamme di fuoco, che in un momento solo quelle fiamme vennero a toccare le mie mani, i miei piedi, e il mio cuore. Mi sentii morire, sarei caduta in terra; ma la Mamma (la Madonna) mi sorresse».
Da quel giorno, il fenomeno delle stimmate, preceduto dall’estasi, si ripetè periodicamente ogni settimana, anche se alcune voci sostenevano che si procurasse da sola le ferite con chiodi arrugginiti. Cessarono due anni prima della morte e non ne fu trovata traccia nell’autopsia. Alle stimmate si aggiunsero la flagellazione e la corona di spine. La santità mistica e carismatica di Gemma si ricongiungeva così alle esperienze medioevali di S. Francesco e di S. Caterina e a quella moderna di S. Veronica Giuliani, ma vi aggiunge un’immedesimazione allo stato infantile che la avvicina ancora alla contemporanea Teresa di Lisieux e che si esprime nella perenne qualifica di “figlia” che si autoattribuisce e in cui esprime il trauma della scomparsa dei suoi familiari e la ricerca spasmodica di genitori sostitutivi.
Singolare e significativo fu, in questo senso, il rapporto che la unì al suo direttore spirituale e poi biografo, il passionista Vincenzo Ruoppolo, che dapprima cauto e prudente ne divenne il fervente sostenitore. Gemma si legò a lui totalmente, chiamandolo “babbo” nelle numerose lettere che gli inviò, scritte con indubbia efficacia e mostrando autonomia d’animo e disinvolta libertà dalle convenzioni. Si firmava costantemente “la povera Gemma”, ad indicare la percezione e la sottolineatura del proprio stato di derelitta. Alla fine della vita, l’insistenza sul rapporto figlia/padre venne sostituito dall’insistenza sulla maternità, attraverso l’attribuzione al confessore dell’appellativo di “mamma”. I promotori della sua santità nasconderanno il bisogno di maternità che stava dietro al confessore-mamma con la confusione mentale provocata dalla malattia.
Gemma rappresenta un modello di santità femminile otto-novecentesca che si sviluppa in parallelo con il tipo, prevalente all’epoca, della santità attiva, impegnata nell’assistenza e nell’istruzione. Complementare a quel modello è presente però anche una esperienza femminile mistica, visionaria, contemplativa, adolescenziale, spesso laica, segnata dall’esperienza della malattia e soprattutto dalla missione vittimaria, espiatrice dei peccati dell’umanità per placare la collera divina.
Tale modello di santità avrà un grande successo popolare e sarà spesso utilizzato in funzione anti moderna e, comunque, di denuncia di un mondo secolarizzato. Esso forniva un modello di comportamento alle giovani donne cattoliche laiche che troverà la massima simbolizzazione nell’esempio della vergine martire Maria Goretti.
Marina Caffiero