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Rosetta Flaiano con il marito a Venezia, 1972 - © archivio Graziano Arici/Grazia Neri. Milano |
Non ho visto molto, nei tanti anni che l’ho conosciuta, Rosetta Flaiano, ma ho visto molto suo marito Ennio, per ragioni di lavoro (eravamo assieme al Mondo di Mario Pannunzio) e di affetto. Ma era importante frequentarla, conoscerla! Rosetta apparteneva alla rara specie delle donne, delle persone, che si annullano in un altro, o in un’altra.
Questa specie potrà forse apparire aureolata di sacrificio, ma non si può chiamare sacrificio ciò che si sceglie, si preferisce, o si accetta con una specie di orgoglio. Si tratta di una prerogativa di alcune persone, soprattutto donne.
La studentessa Rosetta Rota, nata a Vigevano nel 1911, arrivata a Roma con una borsa di studio che le permise di andare a studiare matematica all’Università di Roma, qui si laureò, nel 1933, in matematica pura, e, l’anno seguente, in fisica, con una tesi sulle applicazioni del calcolo delle probabilità.
Due lauree molto brillanti, che la fecero accogliere con entusiasmo dai “fisici di via Panisperna”, Enrico Fermi, Bruno Pontecorvo, Franco Rasetti, Emilio Segré. Un periodo importante, dunque, nella vita della ragazza di Vigevano, ma purtroppo interrotto dalle leggi razziali, che costrinsero al silenzio alcuni di quegli studiosi. Nel 1936 conobbe l’abruzzese Flaiano, che tornava dall’Etiopia. Lo sposò nel 1940.
Rosetta era graziosa, con degli occhi bruni che guardavano di sotto in su, come quelli dei bambini, il sorriso melanconico che mai diventava risata, una grazia leggera, che si notava quasi a fatica. Vestiva in modo molto “perbene”, le sue camicette, le sue gonne, e tailleur e cappottini, sembrando ignara di quel che faceva il marito, il vivacissimo meridionale che con apparente noncuranza diventava un uomo famoso e importante, sempre al centro dell’attenzione sia per la qualità dell’intelligenza di scrittore che per l’umore scoppiettante di battute e di ironia.
Dal matrimonio nacque una bambina, Luisa detta Lelé, con un destino infelice (era cerebrolesa) e a lei Rosetta si dedicò completamente, trascurando tutto il resto, e dunque anche il marito. Questo io non so: un uomo, una donna, capiscono sempre se vengono trascurati, anche per una causa nobilissima, e ne soffrono, non possono fare a meno di soffrirne. Ennio Flaiano, attaccatissimo alla figlia, forse avrebbe voluto più attenzione dalla moglie, ma non l’ebbe, e dunque diventò un po’ assente, e dunque cercò altre distrazioni, sia pure passeggere. La coppia rimase però unita, e non soltanto in superficie. Rosetta insegnava, lui inseguiva il suo destino di scrittore.
Venne una casa a Fregene, orgogliosamente isolata dalle altre, perché per l’uomo la malattia era un fatto da non esibire, ogni sguardo di compassione potendo risultare una ferita: all’amore e all’orgoglio.
Poi, nell’83, fu scelta la Svizzera, sempre per curare la figlia, e venne la completa dedizione a questa causa. Ma Lelé è morta: non vivono a lungo, le creature segnate dalla disgrazia, ma morendo lasciano un segno più forte di quelle nate bene, che raramente appartengono del tutto.
Rosetta ha continuato a vivere in Svizzera, come per essere sempre vicina alla figlia, che è lì seppellita. Si è occupata molto dell’opera del marito morto per ricompensarlo.
Ormai ultranovantenne, ricoverata in una casa per anziani, qualche amico, qualche conoscente la andava a trovare. Sembrava pensare sempre ad altro. Era cieca, non poteva più leggere. Forse, ogni tanto, come un barlume, come uno scintillio, le tornava qualche segno matematico. Ma chi poteva dirlo. Aspettava. E' morta nell’autunno 2003.
Rosetta Rota Flaiano è stata una donna importante perché ha accettato un antico destino di donna, fatto di pazienza, di rinuncia, di intelligenza, di dolore. Una donna antica? Non credo sia l’aggettivo giusto. Una donna da portare ad esempio, e che in fondo ha vissuto una vita più piena e vera di tante altre.
Giulia Massari