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E’ nata a Roma il 21 luglio 1918, ma la sua origine è siciliana, aristocratica per parte di madre; una madre «potente», cui un destino da tragedia greca consentì d’essere l’unica superstite, in una famiglia numerosa e ricca, al terremoto del 1908, una donna-Domina, per la quale «ogni figlio era una specie di barca che lei varava nell’esistenza, ogni volta una vita di figlio da arrischiare [...]. Perché a un certo punto non le bastava più prendersi tutto quel lo che le piaceva» (da Romanzo postumo, un inedito che Bianca Garufi scrisse nel 1943, quando aveva venticinque anni).
Con questa madre, la donna che sarebbe diventata la più importante psicoanalista junghiana nell’Italia dell’ultimo scorcio del Novecento, si è battuta usando le armi dell’intelligenza e della cultura: e tuttavia, riconosce già nel Romanzo postumo, «Più mi ribellavo, più le somigliavo».
(Un meccanismo “infernale” eppure fertile, che molte donne hanno imparato a denudare, nella relazione con la madre, soltanto negli ultimi decenni, attraverso il femminismo).
Scrittrice, letterata, poeta, saggista e psicoanalista junghiana – la sua fu la prima tesi di laurea su Carl Gustav Jung discussa, nel 1951, in un’università italiana, alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Messina – Bianca Garufi è la dimostrazione esemplare del fatto che il terapeuta più vicino al modello ideale di “terapeuta dell’anima” (o, se si vuole, della psiche) non possa non essere un artista.
Scrive infatti James Hillman nella prefazione all’edizione italiana (1984) del suo testo Le storie che curano, pubblicato da Raffaello Cortina nella collana di psicologia archetipica curata da un gruppo di cui Garufi è stata l’animatrice: «La psicoterapia è riuscita ad inventare una narrativa che cura [...]. Tema di questo libro è la base poetica della mente [...]. Conoscere la profondità della mente significa conoscere le sue immagini, ascoltare le storie [...]. E le storie e le immagini evocano l’artista che è nel terapeuta, e il terapeuta che è nell’artista».
Ma nella figura di Bianca Garufi al terapeuta e all’artista si somma un elemento di fascino femminile, di seduzione governata e contraddetta, allo stesso tempo, dal «potere della mente» – «Nel pomeriggio di ieri dicevo di me: sono un po’ come un uomo: ho una testa, risolvo [...]. Un uomo risponde, sistema» (Romanzo postumo).
Ed è questo elemento che attribuisce al personaggio un risvolto mitico. Così, Bianca Garufi, alla metà degli anni Quaranta, diventa un mito, anzi «Il Mito», per Cesare Pavese. Che le consacra un amore infelice – o, più esattamente, le “strappa” dalle viscere mediterranee e vulcaniche – i suoi Dialoghi con Leucò. (Leucò, Leucotea, sono le forme greche arcaiche del nome Bianca).
“A Bianca-Circe-Leucò”, chiarisce del resto l’Autore italiano più disperato ed essenziale della prima metà del Novecento (dopo, sarebbe venuto Pasolini...), dedicandole la prima copia del libro, con la data, novembre 1947- (Un’altra copia di Dialoghi con Leucò sarà ritrovata accanto al suo corpo, nel momento della scoperta del suicidio dello scrittore, avvenuto in una camera d’albergo, a Torino, il 20 agosto 1950: e sulla prima pagina Cesare Pavese aveva tracciato a mano il suo addio: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi»).
Non si vuole dire qui che sia da attribuire a Bianca Garufi l’approdo al Mito come «midollo di realtà», da parte di uno scrittore che, beffando i critici, ironicamente si autodefinisce, nel risvolto di copertina dei Dialoghi, «testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi» .
Ma è innegabile che i Dialoghi – affettuosamente chiamati da Pavese «dialoghetti» (nella corrispondenza con la Garufi) – prendano forma e coincidano con la stagione dell’amicizia tra i due. E negli stessi anni nasce il romanzo a quattro mani, Fuoco grande, che sarà pubblicato, con la firma di Bianca Garufi e Cesare Pavese, nove anni dopo la morte dello scrittore, nel 1959.
E anche di quel lavoro comune – le voci narranti di Fuoco grande sono due, un uomo e una donna, Giovanni e Silvia, in cui è facile riconoscere gli autori, in quella fase della loro esistenza – c’è testimonianza nell’epistolario pavesiano: «Il nostro è un lavoro d’arte, non di sfogo», sottolinea lo scrittore nella lettera a Bianca del marzo 1946, dicendosi certo che «l’artificio toglie al romanzo il possibile antipatico carattere di doppia autobiografia»; ma in una lettera del febbraio dello stesso anno, ricevendo uno dei capitoli di Silvia-Bianca, aveva ammesso: «Sono indebitamente ossessionato dalla “rivelazione” personale che è nel capitolo tuo – le cose feroci che la solida ferocia di Silvia mi fa fare.»
Sapevo bene, imbarcandomi in questo libro, che l’impresa avrebbe portato a galla tutto il pus che abbiamo dentro».
Nel 1962, Bianca Garufi pubblica, sempre con Einaudi, Il fossile, che è il seguito di Fuoco grande. Ed è, ancora, una narrazione a due voci, di Giovanni e di Silvia. Rileggendo insieme i due libri, è inevitabile chiedersi se, fin dal primo esperimento, quello di Fuoco grande, non fosse stata lei a dare il La a quelle pagine nude e roventi: Bianca, la scrittrice esordiente sotto la guida del Maestro («Quando mi si vieta di essere padre di figli, divento padre spirituale», l’aveva ammonita con amara ironia Pavese, in una delle sue lettere), avrebbe attratto nella sua orbita, persino stilistica, il grande scrittore «piemontese» e «campagnolo»?
Ma con il fossile si chiude, per la Garufi, la prima fase di un’esistenza ricca di eventi non soltanto personali ma anche politici. (Bianca aveva fatto la Resistenza, nella Roma occupata dai nazisti accanto a Fabrizio Onofri, figura storica del Pei, e considerato, fino alla rottura col Partito, nel 1956, il delfino di Palmiro Togliatti).
Subentrano i viaggi, i lunghi soggiorni a New York, a Parigi, ad Hong Kong, dove ha istituito e tenuto per tre anni il lettorato di lingua e cultura italiana presso l’università cinese.
A partire dai primi anni Settanta, pur continuando a svolgere la sua attività di traduttrice (ha tradotto, fra gli altri, Claude Lévi-Strauss e Simone De Beauvoir), Bianca Garufi si dedica appassionatamente alla professione di psicoterapeuta junghiana, che svolgerà fino alla morte. È stata vice presidente dell’Iaap, l’Associazione Internazionale di Psicologia Analitica, membro didatta dell’Aipa, l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica. Ha scritto di “psicologia del profondo”, per le più prestigiose riviste specialistiche: la Rivista di Psicologia Analitica, il Journal of Analytical Psycology, Spring, Anima.
Nel 1992 Vanni Scheiwiller ha pubblicato una raccolta della sua produzione poetica, dal 1938 al 1991.
Adele Cambria