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Le ex ragazze degli anni Sessanta se la ricordano bene, Brunella Gasperini. La sua rubrica di piccola posta su Annabella è stata, in quegli anni, una sorta di collettivo virtuale e allargato che prefigurava i futuri gruppi di “autocoscienza” del femminismo militante.
Uno spazio caotico, ma traboccante passione e vitalità, che consentiva alle donne un insolito esercizio di libertà di parola. Lei, dalla piccola foto in cima alla pagina, rivolgeva alle lettrici il suo sguardo materno, non privo di una benevola sfumatura ironica, all’ombra di occhiali giganteschi che coprivano il faccino minuto.
Presenza essenziale e poco ingombrante, autorevole e per niente autoritaria, la Gasperini lasciava divampare le discussioni epistolari su temi come verginità, civetteria, contraccezione, ribellioni generazionali e conflitti familiari, esprimendo con fermezza la propria opinione, vibrante e incisiva, senza mai pretendere di offrire la parola conclusiva, il verdetto finale.
Nel 1950 Bianca Robecchi, laureata in lettere classiche e già sposata con Adelmo Gasperini, inizia su Novella la sua carriera giornalistica, scegliendo uno pseudonimo che opera solo un piccolo slittamento semantico rispetto al nome vero: Candida. Ma quando trasloca ad Annabella decide di abbandonare le simbologie della purezza, e vira decisamente sul versante opposto, firmandosi Brunella.
In questo innocuo cambiamento sono contenute, in realtà, la sua poetica e la sua politica. La purezza, per le donne, ha per lungo tempo crudamente coinciso con la verginità, identificata socialmente dai segni del pudore e della modestia. La Gasperini vuole rovesciare il canone, mettendo sotto accusa le apparenze per esaltare i contenuti, e cioè la limpidezza di intenti, l’onestà dei sentimenti. All’esteriorità convenzionale dei modelli femminili contrappone la rivelazione dell’autenticità interiore, di un’innocenza profonda vestita di panni insospettabili. I personaggi dei suoi racconti sono sempre dei diversi (blandamente, ma scandalosamente, diversi) che nascondono una generosità e una moralità più vere.
«È facile essere angeli quando se ne hanno l’aspetto e la voce, quando si hanno miti occhi azzurri e un dolce sorriso» (L’estate dei bisbigli, Rizzoli 1956); invece gli angeli di Brunella sono ragazze tenebrose di incerte origini, nonni anarchici e semi-alcolizzati, biondone svampite, adolescenti ostici e trasgressivi.
La sua narrativa si mantiene ancora dentro i confini del romanzo rosa, allargando però l’inquadratura. I riflettori non illuminano più soltanto la coppia, ma anche gli amici, i parenti, il contesto sociale: al conflitto sessuale si affianca quello generazionale, il rosa si ibrida con il romanzo di formazione. L’amore diventa rito iniziatico, passaggio verso l’età adulta, e la crisi amorosa rappresenta l’imbuto per uscire dall’adolescenza. È uno scarto notevole rispetto al rigido isolamento del classico loveworld, l’universo chiuso del rapporto a due; qui ad essere messo in discussione è il mondo dei padri, l’organizzazione della famiglia borghese e la sua scala di valori.
Quello di Brunella Gasperini è un riformismo lucido e prudente, che non punta a sovvertire l’ordine familiare ma a rifondarlo, attraverso un rinnovamento sostanziale dei modelli. La famiglia è il cuore pulsante della sua narrativa, un mondo elastico e onnicomprensivo in cui sentimenti e risentimenti si rapprendono e si espandono, in cui tutti vengono accettati, contenuti, riassorbiti. Per questo i migliori scritti della Gasperini sono quelli più scopertamente autobiografici, in cui racconta di sé, delle sue case e dei suoi animali, dei figli e degli amici dei figli.
La serie diaristica (Io e loro. Cronache di un marito; Lui e noi. Cronache di una moglie; Noi e loro. Cronache di una figlia; tutti pubblicati da Rizzoli tra il ‘59 e il ‘65, e poi raccolti nel 70 nel volume Siamo in famiglia) adombra con chiarezza la vera famiglia Gasperini, sia pure trasfigurata secondo il codice tipico dell’autrice.
C’è un padre iroso e burbero, che prende pesantemente in giro soprattutto la moglie («la scrittora») e il figlio («il mentecatto») ma è profondamente legato al suo piccolo nucleo e lo difende da ogni attacco esterno. C’è la figlia seria, taciturna e sognatrice, il figlio ribelle che suona il sassofono («il piffero», secondo l’ironico genitore), e poi la carovana multi colore di parenti e amici. Ma soprattutto c’è lei, la madre, descritta così: «Raggomitolata sul divano nel suo mare di lettere sparse, coi cani ai piedi, i gatti in grembo, stormi di uccellini trillanti intorno alla testa, ha l’aria di essere sordomuta, come sempre quando lavora o fa finta».
È l’immagine di una donna pensante, indipendente, eppure in misteriosa relazione di scambio affettivo con tutto quel che la circonda, siano animali, figli o lettrici. In questo cerchio amoroso ogni differenza, anche quella di specie, viene annullata, come sarà evidente nell’ultimo libro della Gasperini, il più amato, Una donna e altri animali (Rizzoli ‘78). Franco Cordelli, con calore partecipe, l’ha definito «un romanzo scritto (senza sapere e tuttavia sapendo) sull’orlo del precipizio: vi si narra di una malattia che l’autrice crede superata e che verosimilmente non lo era (la Gasperini morirà l’anno dopo a 61 anni). Un romanzo scaturito da un’ansia, dunque pieno come un uovo, germinale, di ubriacante fertilità».
Tutti i dolori di una vita, anche quelli sempre taciuti (come la morte del primo figlio, un neonato che teneva in braccio quando fu travolta dalla folla in fuga durante un bombardamento) fermentano, ribollono, in questo libro dove «tutto pulsa, tutto corre», dove nascite e morti si susseguono e ogni avvenimento è «gridato ad alta voce, detto a mezza voce, sussurrato tra sé e sé».
Resta il dubbio su quanto, in questa scrittrice abituata a sciorinare i panni in pubblico e a offrirsi in piena luce, ci sia di artificio utopico e consolatorio, quanto la mite, ironica Brunella abbia usato l’autobiografia come finzione più intima e personale che letteraria, ritoccando sulla pagina la propria immagine e la propria vita matrimoniale per averne, di rimando, un po’ di sollievo. Una sua collega, Giulia Oliosi, l’ha dipinta così: «Era riuscita a dare un’immagine di sé svagata, allegra e innocente che reggeva. Quanto a lei, che non era affatto svagata, né allegra, né particolarmente innocente, avrebbe retto a lungo allo stress di quel lavoro e di quel l’ambiente, guadagnandosi un’ulcera di cui infine sarebbe morta».
Eugenia Roccella