» Guarducci Margherita  
1902 - 1999
 


 

 

Epigrafista e storica del mondo antico, legò il suo nome al ritrovamento e alla discussa identificazione delle reliquie di san Pietro.

Completati gli studi all’Università di Bologna, dopo le prime precoci pubblicazioni, ventiseienne iniziò la sua stagione cretese, che la portò nell’isola greca a ricercare e studiare tra i resti archeologici le iscrizioni – poi pubblicate in quattro volumi, tanti quanti quelli della sua limpida trattazione dell’epigrafia greca – accanto al suo maestro Federico Halbherr. Restano di quegli anni foto ingiallite dal tempo, che conservano i tratti di una bella giovane donna, dai capelli scuri raccolti e dallo sguardo intelligente.

Vuole la leggenda che il suo professore se ne invaghisse, spingendosi forse a qualche timido approccio, che s’immagina impacciato ma soprattutto liquidato da un irremovibile “non faccia lo stupido”. Non si conoscono infatti amori di “donna Margherita”, che mai si sposò, e visse con la sorella. Dal 1931 prese il posto del maestro scomparso, sulla cattedra d’epigrafia e antichità greche nell’Università di Roma tenuta per un quarantennio.

Qui presto la signorina acquistò fama e autorità, consacrate dal soprannome non benevolo – e un po’ irriverente in quanto appellativo della Madonna – di virgo potens, forse allusivo anche della granitica fede cattolica della studiosa, che tra l’altro non nascose la sua adesione politica di destra e si schierò contro le legalizzazioni di divorzio e aborto.

Nel 1950, con la pubblicazione dell’ultimo volume delle epigrafi di Creta, si chiuse un periodo e s’aprì la stagione che le avrebbe dato notorietà. S’era, infatti, appena conclusa la campagna di scavi nel sottosuolo della basilica vaticana, voluta nel 1939 dal neoeletto Pio XII, che il 23 dicembre 1950, alla fine dell’anno santo, aveva annunciato il ritrovamento della tomba di san Pietro, affermando che la cupola michelangiolesca s’inarcava «esattamente sul sepolcro del primo Vescovo di Roma».

Da qualche anno l’epigrafista aveva cominciato a occuparsi d’argomenti cristiani e – dopo aver ottenuto nel 1952 con tenace insistenza, grazie all’amico monsignor Giovanni Battista Montini (poi divenuto Paolo VI), il permesso di studiare la tomba di San Pietro, tema fino ad allora riservato a ricercatori quasi solo ecclesiastici e tutti rigorosamente maschi – pubblicò in tre volumi già nel 1958 i risultati delle sue indagini e letture dei graffiti che, fittissimi, ricoprivano le pareti vicine al sepolcro dell’apostolo. Il tema era controverso e incandescente: a parte qualche incertezza precedente, in età moderna erano stati soprattutto i protestanti a negare, per evidenti ragioni ideologiche, la venuta di Pietro a Roma.

Il risultato degli scavi contribuì a liquidare ogni dubbio: gli ingegneri e architetti dell’imperatore Costantino avevano edificato dal 324 l’enorme basilica vaticana – spianando un colle e interrando, contro ogni regola antica, una grande necropoli – proprio sul sepolcro dell’apostolo. Ma le reliquie di san Pietro non erano state trovate. Finché la tenacia della signorina (che sempre ricorse con intelligenza a specialisti in altre discipline) non ritenne d’averle scovate, in una cassetta dove erano state raccolte e messe da parte ossa frammiste a detriti (provocati da scavi non ineccepibili) e a fili di porpora e d’oro.

Fu questa una delle piste decisive: si trattava senza dubbio dei resti d’un personaggio che erano stati avvolti in un panno riservato all’autorità imperiale, evidentemente quando nella necropoli gli operai di Costantino li ritrovarono, nel loculo sul quale da almeno un paio di secoli sorgeva un piccolo monumento (il “trofeo” menzionato intorno all’anno 200 dal prete romano Gaio) circondato da diverse sepolture. Questo era addossato al muro rosso e a un altro, ricoperti di graffiti cristiani inneggianti a Pietro, decifrati e integrati dalla sagace pazienza, ma anche dall’immaginazione, dell’epigrafista.

I conti tornavano: Pietro era ritrovato, «in modo che possiamo ritenere convincente», anche se «non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche», annunciò Paolo VI il 26 giugno 1968.

Ma il decennio intercorso tra l’uscita dei volumi sulle iscrizioni vaticane e l’annuncio di Papa Montini aveva visto l’esplodere e l’infuriare delle polemiche scientifiche (e personali), prolungatesi negli anni successivi e durante le quali la studiosa ribatté implacabilmente, colpo su colpo, ai suoi critici.

Tra questi, con un singolare rovesciamento delle parti, molti ecclesiastici (soprattutto lo scrupoloso archeologo gesuita Antonio Ferrua), non convinti dalle letture dei graffiti – secondo alcuni in parte immaginarie, e senza dubbio indebolite dalla teoria di una “crittografia mistica” elaborata dall’epigrafista – e dall’identificazione delle reliquie, considerata non sicura. Ma la studiosa persuase molti altri e fu sostenuta da un critico laico a tutta prova come Federico Zeri, che arrivò a definirla una «punta di diamante».

Testarda e travolgente, con la sua entrata in scena aveva sconvolto e irritato un ambiente, come quello ecclesiastico, chiuso e geloso, che non la sopportò mai. Anche perché seppe divulgare con efficacia in libri di successo la sua tesi, convinta di svolgere una missione. Seguirono altri studi (e altrettante polemiche) su molti temi controversi, per ricostruire le componenti pagane e cristiane d’un mondo antico che la studiosa considerava unitario, animata da una sola passione, la ricerca e la difesa della verità.

Giovanni Maria Vian