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Ignoto - Tito Speri (1825-1853). 1852 circa - Musei Civici Milano |
Capelli rossi con frangetta, occhi grigi, una bella voce roca, maglietta celeste e jeans scoloriti recanti il simbolo del movimento femminista, una vaga somiglianza con Mariangela Melato: così i giornali dell’epoca descrivono Gigliola Pierobon, la principale imputata del celebre processo di inizi anni Settanta che l’ha vista alla sbarra accusata di aver violato gli articoli del codice penale Rocco in materia di aborto. È un momento importante nel paese del secondo dopoguerra, specchio di profondi cambiamenti di costume e foriero di novità giuridiche.
Una ragazza diciassettenne come tante nell’Italia di quegli anni, Gigliola, figlia di agricoltori di San Martino dei Lupari (Padova), rimasta incinta viene subito abbandonata dal ventisettenne padre del bambino. La decisione di interrompere la gravidanza è sofferta ma obbligata. Tra i motivi, v’è soprattutto il terrore per la possibile reazione dei genitori: «I miei sarebbero diventati lo zimbello di tutti, m’avrebbero cacciata di casa e quindi dal paese, ero senza soldi e senza assistenza, confusa, impaurita. Cos’altro potevo fare?».
Ma abortire in quegli anni è illegale. Per chi abbia «attentato all’integrità della stirpe» interrompendo una gravidanza, l’articolo 546 del codice penale prevede dai 2 ai 5 anni di galera, con riduzione della pena solo «se il fatto è commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto». La via possibile è una, quella dell’illegalità, economicamente cara ed estremamente rischiosa.
Le quarantamila lire necessarie per l’intervento Gigliola le riceve da «un buon ragazzo che mi voleva bene», Roberto Cogo, studente universitario all’epoca, che diverrà poi suo marito e padre di sua figlia Jessica. Il rituale dell’aborto è quello solito cui le donne sono state costrette per secoli: stesa su un tavolo da cucina, senza anestesia e igiene, le viene introdotto un ferro in corpo. Gigliola sviene più volte per il dolore e per la paura, e fortunatamente sopravvissuta, deve però curarsi però un’infezione procuratale dalla rudimentale sonda.
L’episodio viene scoperto durante un processo in cui era teste e, interrogata più volte nel 1969, viene sottoposta ad una visita ginecologica che conferma il fatto. E così, ormai ventitreenne, il 5 giugno 1973 compare dinnanzi ai giudici di Padova, con il Pubblico Ministero che chiede un anno senza perdono giudiziale perché la ragazza “non s’è pentita”.
Ex operaia ed ex commessa della Upim, disoccupata al momento del processo (è pressoché impossibile trovare lavoro per una giovane separata, con figlia a carico e una denuncia pendente per aborto procurato), Gigliola ha però conosciuto in quegli anni il movimento femminista, il che le ha dato una certa consapevolezza.
In tribunale tradisce angoscia, ma è priva di acredine anche verso chi la mise incinta piantandola subito dopo («gli uomini fanno tutti così»). Soprattutto è molto ferma: non è la colpevole che implora pietà, ma è una donna che rivendica, senza arroganza né vergogna, il suo diritto ad una libera scelta: «Ogni donna deve avere il diritto a decidere della sua vita e del proprio corpo».
Il tribunale di Padova, dopo quattro ore e mezzo di camera di consiglio, dichiara «non doversi procedere contro l’imputata per concessione del perdono giudiziale». È l’assoluzione, ma la formula è chiaramente espressione di un paternalismo ambiguo: il perdono giudiziale implica la colpevolezza.
Questo processo presenta una particolarità interessante: l’imputata è rea confessa. Difatti, nonostante il rigore del codice, non solo non erano frequentissimi i processi per aborto, ma essi finivano per lo più con l’assoluzione per insufficienza di prove.
Ma soprattutto è importante perché ricalca lo schema delle battaglie in favore dell’aborto sostenute tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta: si vuole porre l’opinione pubblica davanti al dramma dell’aborto clandestino attraverso gesti ed episodi clamorosi (come provocatorie ammissioni di colpevolezza e auto-incriminazioni di massa). Il singolo caso concreto diventa così l’occasione per porre alla sbarra le leggi che criminalizzano l’aborto. La linea di difesa degli avvocati di Gigliola fa leva sul fatto che la giovane ha agito «in stato di comprovata necessità» data la sua età e l’ambiente “retrivo” del suo paese.
In particolare è la torinese Bianca Guidetti Serra ad evidenziare nella sua arringa la drammaticità delle condizioni sociali, economiche e politiche che costringono le donne ad abortire. Sulle orme di quanto già avvenuto in Francia e in Germania, si cerca di fare un uso politico della vicenda, cosa non facile, con il tribunale ben deciso ad impedire che il processo contro Gigliola diventi l’occasione di affermare il diritto delle donne alla libera scelta. Ma non riesce nemmeno il tentativo di tacitare questo processo, di farne uno dei tanti processi silenziosi celebrati di fretta contro le donne accusate di aborto.
La strada è ormai aperta alla revisione della legislazione vigente, il che – lungo un processo ancora accidentato – avverrà il 18 maggio 1978 con l’entrata in vigore della legge n. 194.
Giulia Galeotti