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L’esordio ufficiale di Dolores Prato, come narratrice, avvenne nel 1980. Lei, nata nel 1892, era una debuttante molto vecchia, geniale, amara. Il suo romanzo aveva uno strano titolo idiomatico: Giù la piazza non c’è nessuno. Per ragioni di mercato e di convenienza editoriale, era stato drasticamente ridotto. Ciò amareggiò molto Dolores Prato che non vide mai l’edizione integrale del ‘97, né una sezione a parte ritrovata fra le sue carte, Le ore, dell’‘87-‘88, entrambe riordinate e pubblicate per la passione di Giorgio Zampa, suo curatore.
Giù la piazza non c’è nessuno è un romanzo autobiografico che procede per strappi di visione e di coscienza, dando infine il ritratto ampio e unitario di una bambina e della sua educazione. Ma la Prato non la chiamò educazione bensì «la distruzione che fu mia». Non a caso Enzo Siciliano parla di «un atto testimoniale caldo di umanità». Raro.
Infatti potè prodursi quando Dolores ottantenne, prese ad estrarre, dai suoi appunti stratificati, via via conservati in scatole, altrettanti scorci narrati di vita vissuta. La bambina Dolores venne così messa a nudo: abbandonata dalla madre che aveva già avuto cinque figli e che era vista come peccatrice dal mondo borghese, ignara dell’identità del padre, affidata a pochi anni a un anziano zio prete e alla sorella di lui, a Treia, nelle Marche, educata in austerità e solitudine, appena ragazzina inviata in un educandato religioso per signorine perbene. Era il 1904, Dolores aveva dodici anni.
«La zia mi ravvivava sempre i capelli avanti di uscire [... ] ma questa volta me li ravvivava perché mi avrebbe condotta in collegio e lì mi avrebbe lasciata. Con urlo di belva pugnalata le strappai di mano il pettine e lo spezzai. [... ] Avevo spezzato me stessa quando spezzai il pettine [... ] poi tutto cadde nel niente per me. Gli altri videro un automa silenzioso e calmo».
Dolores restò in collegio fino a diciotto anni, poi andò a Roma, si laureò al Magistero, saltuariamente insegnò in scuole delle Marche e del Lazio, fu antifascista, scrisse articoli, tentò altri mestieri, nel 1948 pubblicò un romanzo: Il paese delle campane. Ma ebbe scarsa eco, forse perché la sua prosa era ancora legata a certi moduli letterari e le sue parole erano tuttora “camuffate”.
Con l’eccezione di un bel racconto pubblicato nel 1965, Scottature, solo molto più tardi, spinta da amici cari, lei riuscirà a liberarsi della sua “doppia clausura” (del temperamento solitario e della dura realtà) e questa liberazione produrrà una prosa densa, lucida, sanguinante, per la quale Enzo Siciliano parla anche di assoluto, di inclinazione mistica, di spregiudicatezza, e dove le parole assomigliano spesso a “timbri a fuoco” – una espressione della Prato – gli stessi coi quali si marchiano le pecore. Era finalmente il suo stile, era il suo procedimento inventivo, per riscattare la sua stessa vita. Infatti nel suo grande romanzo Dolores Prato non riunisce ricordi, ma brandelli di verità. «Quello che appare memoria – scrisse – è raccolta di cicatrici».
Grazia Livi