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Su Wanda Raheli, Bologna, 1926, non è stato scritto quasi nulla benché la sua opera spicchi per qualità in questo ultimo cinquantennio di pittura italiana al femminile. E la presentazione della sua vicenda biografica e creativa è quasi una pagina inedita, resa più difficile da una profonda propensione della protagonista al tacere di sé. Qualche episodio, allora, e ritratto, non suo ma in introduzione di lei.
Il padre, un ricco signore pugliese che mina le proprie fortune economiche seguendo due volte il cuore: per sposare una contadina splendente ed incolta, e per i tabacchi, di cui sperimenta piantagioni in Gallipoli e dintorni. Madre bizzarra, per sempre accanto allo strambo suo principe; con cui è però litigio continuo, prima e dopo la rovina che certamente l’altro suo grande spasimante, un botte gaio di paese, non avrebbe generato.
Ma qui si insegue il sogno, ed ecco a cavalcarlo si vede il padre, addetto alla censura in Bologna, amico d’infanzia di Starace... e socialista anarcoide: che, appena sbarcato a Napoli con gli strumenti di pittore dilettante, per mancanza di tessera del Fascio (e per aver dichiarato: «Io sono un uomo libero») è sbattuto in galera da un gendarme perditempo.
Con la figlioletta: Wanda, appunto. E non Beatrice che – sia detto per inciso – di Wanda è la sorella, perché la scelta del babbo è la scelta del destino e contro non si può remare. E difatti siamo ormai alla guerra e l’Italia spaccata in due vede Beatrice soffocare ogni giorno nella Bologna occupata dai nazisti, sventrata dai bombardamenti, stremata di cadaveri a lato le strade. Mentre Wanda attende ad altri spettacoli, sorpresa in vacanza al Sud dagli alleati, dalla nuova musica, dai balli d’oltre oceano. Ma poi eccola, allieva di Sharoff, di nuovo a Bologna come prima attrice del Teatro dell’università e intanto in giro per la penisola a cantare: per dirne una, a Roma, con Tajoli, all’Osteria dell’Orso.
Ed era già un indirizzo molto d’élite: con buona pace d’un ragazzo che si era preso una cotta dispendiosa e lasciava sul tavolo per vederla più di quanto la sua bella non guadagnasse (una mania che gli è rimasta dopo il matrimonio: s’è voluto ricomprare subito il primo dipinto venduto dalla moglie a Monicelli).
Roma si attarda nella Dolce Vita e i due frequentano i circoli della cultura e del potere con un tono di eleganza che affascina e mette a disagio ad un tempo: poi lui è al Parlamento e la politica una seconda volta fa irruzione in casa. Ma Wanda ha di nuovo una pro pria via, anzi una via percorsa a mezzo con la figlia, che è ormai cresciuta e principia a militare nel Movimento di Liberazione della Donna.
Per quella sua curiosa puntualità con la storia, capita in Accademia ormai quarantaduenne, nel corso di Guttuso e Guccione: siamo nel 1968, quando il divorzio e l’aborto reclamano già le prime pagine dei giornali. Lei c’è, in prima fila nelle manifestazioni, cui dà volto e voce con slogan e manifesti (tra cui il celebre “Facciamoci sentire” dove una gran bocca urla a tutto fiato). Ma soprattutto ci sarà a mezzo degli anni Settanta: al Circeo due ragazze sono state violentate e massacrate da farabutti della Roma bene e finalmente lo stupro sarà riconosciuto da reato contro il pudore a reato contro la persona. Se le donne che hanno subito la violenza sono tante, Wanda anima i centri per aiutarle.
Tutto sembra detto e scritto, quando nel 1981 un ictus porta la pittrice in coma vigile, in cura in Canada, vegliata continuamente dalla figlia. La mente è poi di nuovo quella di una bimba, che deve reimparare tutto e che guadagna a poco a poco i propri ricordi: persino scrivere è una cosa nuova.
La vista cede mentre rinasce diversa questa signora un po’ funambola, in un gran quartiere di Roma, coperta d’amici, ma come infinitamente distante dalla vita. Non dipingeremo più un pane-manifesto per Marco Pannella in sciopero della fame, ma l’ombra del marito. Le persone si fanno solo contorno, figure senza volume restituite dalla matita sulla tela con tratto inconsistente. Nuvole vivono spazi tersi e non mai visti: un cielo blu pieno ed una stella ricavata come un punto di luce apponendo un vetrino alla tela ripete la decorazione della Basilica inferiore di Assisi, essa stessa inattesa e resa visibile solo da un restauro recente. Ogni oggetto perde di consistenza mentre supera il proprio senso immediato e valore simbolico (“politico”, in altri tempi): qui le cose si danno come pura sensazione.
Forse sessanta sono i quadri di questa artista, che si appresta a dipingere l’aria, con quella sua debolezza d’anima, quella sua distanza da tutte le parentele e da tutte le diplomazie, quel suo sguardo perso, malinconico e talvolta raggelante che hanno in genere i grandi artisti solitari.
Matteo Smolitza