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Maria Rubiolo sulla Fiat 1500, Torino 1935 - Foto cortesia Archivio storico FIAT, Torino |
Se n’è andata il 31 gennaio del 2001, a 88 anni, amata, stimata, temuta e dimenticata. Nata il primo gennaio del 1914 a Torino, è stata per oltre quarant’anni una delle poche donne arrivate ai vertici della gerarchia Fiat e, avendo dato inizio alle pubbliche relazioni quando questa professione faceva i primi passi in Italia, ne è diventata uno dei personaggi più in vista.
Fu assunta giovanissima alla Fiat come segretaria di Gino Pestelli, il quale aveva fatto il suo ingresso nella azienda torinese come responsabile dell’ufficio stampa dopo aver dovuto lasciare il suo posto di redattore capo de La Stampa del senatore Frassati.
Era stato Mussolini, dopo il delitto Matteotti, a chiedere la sua testa, in quanto responsabile dell’uscita del quotidiano piemontese con il titolo: “Il voto del Parlamento a Mussolini, il cuore degli italiani a Matteotti”.
Entrata in Fiat con la raccomandazione materna di non farle fare brutta figura per nessuna ragione, compito faticoso con un capo come Pestelli, persona estranea alle regole collaudate della grande industria, la Rubiolo aveva sposato il lavoro, iniziando così una carriera-matrimonio speculare allo sviluppo dell’azienda. Quando tra mondo industriale e stampa i rapporti oscillavano fra indifferenza e sospetto, lei è riuscita a fare in modo che quelli con la Fiat diventassero fluidi e costruttivi. Con tenacia e dedizione ha dato vita a uno dei servizi più efficienti del settore, capaci di interpretare tutti i bisogni della stampa e poi del cinema, delle mostre, delle esposizioni e delle fiere.
Alle spalle di questa vicenda, tutta consumata tra scrivanie, tavoli di riunioni, telefoni, macchine per scrivere e pareti di uffici affollati e rumorosi – la Rubiolo non ha mai avuto un ufficio suo – chi era la persona che, tessendo una rete fittissima quanto smisurata di relazioni internazionali, ha tanto contribuito al buon nome della Fiat, quella del vecchio senatore Agnelli e di Valletta, prima, e quella di Gianni e Umberto Agnelli, poi?
Ebbene, e questo valga per chi non l’ha conosciuta, il primo dato da cui non si può prescindere è quello fisico, di una donna che si presentava come un monumento, una stanga alta un metro e ottanta, bionda come può esserlo una tedesca, occhi azzurri penetranti, una donna che, quando si trattava di servire la causa della sua azienda, esprimeva una capacità e una volontà unica di trasformare in positivo tutto quello che toccava, anche i propri difetti. Perché di difetti la Rubiolo ne aveva. Per esempio era ignorantissima, ma proprio per questo era attentissima a quello che faceva e sospettosissima nei riguardi delle iniziative che doveva prendere. Chiedeva, s’informava bene su tutto e così facendo aveva raggiunto un buon livello di cultura pratica.
Una volta, dovendo fare un omaggio a un illustre personaggio in occasione dei suoi trent’anni di matrimonio, pensò di inviargli una copia magnificamente illustrata della Gerusalemme Liberata del Tasso. Prima di recapitargliela, tuttavia, si era bene informata se la vicenda narrata non contenesse un episodio di uxoricidio. In caso positivo, per non fare una gaffe, avrebbe cambiato regalo.
Fare omaggi per conto della Fiat era parte della sua attività e in materia aveva organizzato un ufficio interno che se ne occupava a tempo pieno disponendo di una gamma completa di alternative di diverso valore.
Molti dei giornalisti che andavano a sciare nei dintorni di Torino avevano preso l’abitudine di fermarsi a corso Marconi, sede della direzione Fiat di allora, e di salire negli uffici della Rubiolo per farle un saluto. E questa, ricambiando la cortesia, non li lasciava mai andar via senza un ricordo della propria città.
Non sempre, tuttavia, la sua generosità era interessata e propiziatrice. Se capita va che una persona bisognosa passasse dalle parti del suo ufficio, allora la Rubiolo, senza farsi pregare e senza aggiungere altro, allungava la mano verso una scatola che teneva su una sedia accanto alla macchina per scrivere. Tirava fuori una banconota. «Tieni cara», diceva. «E non ci pensare più».
Seguendo il filo dei suoi difetti raddrizzati e resi positivi, la Rubiolo può essere ricordata anche per la sua sfacciataggine. Una caratteristica, questa, che si rendeva preziosa tutte le volte in cui si rivelava l’arma più adatta a risolvere situazioni che sarebbero state a dir poco imbarazzanti e insuperabili da parte di chi non fosse provvisto di altrettanta faccia tosta e spirito di servizio.
In occasione del cinquantenario della Fiat, si era pensato di commissionare un quadro a un noto artista che illustrasse il momento cruciale della lavorazione dell’acciaio, nella fase cioè in cui questo metallo viene forgiato. Rifacendosi alla mitologia e alle divinità del caso, il soggetto si prestava ad essere rappresentato da una figura umana al lavoro.
Chi meglio del grande De Chirico poteva farlo? Sennonché, ricevuto il dipinto dall’artista, gli esperti delle acciaierie Fiat, a cui la tela era stata sottoposta dalla Rubiolo per approvazione, osservarono che il personaggio rappresentato nel dipinto impugnava il martello in modo scorretto. La Rubiolo non esitò un istante. Avvolse l’elaborato in un telo e, in treno, partì per Genova dove l’artista si trovava in quel momento. Raggiunse l’albergo in cui il maestro alloggiava, e ottenne l’intervento necessario.
Alla morte del professor Valletta, avvenuta in pieno agosto, la Rubiolo si trovò, mentre la città e la Fiat erano chiuse per ferie, a dover organizzare un funerale degno della persona, allora presidente d’onore della più grande azienda italiana. La cosa più difficile era assicurare la presenza al completo del vertice dell’azienda e dei massimi dirigenti recuperandoli ad uno ad uno mentre erano in vacanza.
Il caso più complicato fu quello del neoeletto presidente, l’Avvocato Agnelli, il quale era in crociera nell’oceano Pacifico. A quell’epoca i telefoni satellitari non esistevano ancora e non era facile pertanto avvertirlo. Ma la Rubiolo non solo riuscì a farlo, ottenne che Agnelli fosse anche presente alla messa funebre. Riuscì a coinvolgere il Dipartimento di Stato americano affinché localizzasse la presenza di Agnelli e mandasse sul posto una unità navale della marina, prelevasse la persona e la spedisse al più presto a Torino.
Cresciuta in una Fiat povera, offriva una propria interpretazione del culto del risparmio avendolo appreso dal mondo particolare dei grandi numeri della produzione. Alcuni giornalisti a cui andava incontro un giorno, la videro che si fermava e si chinava a terra, attratta da qualcosa. «La vedete questa?» disse mostrando quanto aveva raccolto. Era un fermaglio. «Se ogni dipendente Fiat, e siamo in 120. 000, ne raccogliesse ogni giorno uno per tutte le giornate lavorative di un anno, lo sa lei quanto si risparmierebbe?».
Donna metodica, attenta, concentrata e meticolosa, la Rubiolo era però anche creativa, appassionata e amorevolmente impudente. E questo grazie al fatto di aver assorbito l’etica del lavoro a tal punto da poterla trattare con leggerezza e a volte con irriverenza. Diceva che nel suo lavoro occorreva saper fare di tutto e non sentirsi sminuiti da niente. La sua formula era pertanto quella di sapere «rouler i tapis e fé la prima dona», cioè esser pronti anche a srotolare e riarrotolare i tappeti necessari alle cerimonie alle quali bisognava poi presenziare in prima persona dimostrandosi all’altezza di ricevere le autorità.
La fedeltà all’etica con cui era sposata rendeva gli impegni che ad altri potevano sembrare gravosi altrettante occasioni di capolavori di quella specialità minore rappresentata dallo spirito di servizio. Se infatti la giornata primaverile era ventosa e proprio in quel giorno si celebrava il matrimonio della figlia di una persona in alto nella gerarchia Fiat, matrimonio alla quale era atteso il professor Valletta, ecco quello che succedeva. Incaricata della organizzazione della cerimonia, la Rubiolo sostava all’esterno della chiesa di campagna e fiutava l’aria.
«Groupa le piante!» intimava ad un certo punto a uno dei collaboratori, il quale ricevuto l’ordine di legare le piante correva ad eseguirlo prima che cadessero.
Si avvicinava il momento in cui gli ospiti sarebbero usciti dalla chiesa. Allora la Rubiolo riprendeva. «Mi sun tant preoccupà».
«Perché tota (signorina n. d. r)? le piante sun groupà», la rassicurava la collaboratrice che si era assicurata che le piante fossero state legate bene.
«A l’è per sua eccellenza», osservava la Rubiolo. Temeva che una folata improvvisa di vento potesse investire e buttare a terra il professor Valletta che era un uomo minuto. «Tsas cosa fuma? Quand chiel a riva, ti vadi davanti e taje l’aria e mi vado di fianch. (Sai cosa facciamo? Quando lui arriva, tu lo precedi e gli tagli l’aria e io mi metto di fianco)».
Se lo spirito di servizio richiedeva che un risultato di lavoro fosse ottenuto ricorrendo all’aiuto del prossimo, la Rubiolo non esitava a servirsi dell’adulazione.
«Professore! lei è un GIGANTE! e risale tutte le correnti». Così applaudiva una decisione di Valletta, che gliela comunicava telefonicamente dall’alto dei suoi uno e sessanta scarsi.
Ma il suo capolavoro fu quello dell’uso delle cartoline. Le presentazioni dei nuovi modelli automobilistici Fiat avevano luogo a quel tempo in località turistiche del Piemonte, di solito un castello, dove i giornalisti specializzati affluivano a gruppi per la prova su strada su un percorso predisposto. Erano, per gli invitati, giornate di relax, ricordate per l’ospitalità ricevuta e le buone colazioni servite.
Al termine delle quali venivano distribuite delle cartoline. Sapendo che sarebbero state affrancate e spedite dall’organizzazione, e che bastava scriverle e mettervi l’indirizzo, non c’era quasi nessuno che non ne approfittasse. Il fatto è che prima di partire per la Posta, il pacco che le conteneva passava al vaglio della Rubiolo. La quale in quel modo – innocente, se si considera che era dettato dalla voglia di sapere per migliorare – nell’offrire un servizio si era assicurata una fonte di informazione preziosa sul gradimento o meno della giornata trascorsa.
Presa da una vita tutta dedita al lavoro, il mondo privato della Rubiolo si riduceva a poca cosa. I nipoti, il suo uomo e la madre. Ma anche questi sembravano ritagliati alla perfezione nel bassorilievo della piccola epopea della sua particolare esistenza. Professore di stenografia e segretario di redazione de La Stampa ai tempi di Giulio De Benedetti, Fausto Frittita sembrava essere stato scelto per starle accanto in quanto persona al corrente di quello che si diceva al giornale della Fiat. E la Rubiolo, si sa, doveva sapere.
Invece il suo Fausto era proprio il suo compagno, piccolo di statura, discreto, amabile. Bastava vederlo quando lei si ruppe malamente una gamba e finì in ospedale dove la trattennero per un bel po’ di tempo obbligandola a star lontano dall’ufficio. Quando si trattò di essere operata, lei volle accanto il suo Fausto. Nel timore che sotto l’effetto dell’anestesia dicesse cose sconvenienti, bestemmiasse o ingiuriasse qualche direttore Fiat, lui fu autorizzato a essere presente in camice, pronto tapparle la bocca in caso di bisogno.
E poi c’era la madre, “la Clotilde”, come la chiamava la Rubiolo. Donna tirannica e sospettosa, controllava la figlia come se fosse ancora una ragazzina anche quando questa era ormai e da tempo un importante direttore Fiat.
Non sopportava che avesse un fidanzato e augurava la morte della madre di quest’ultimo accendendo dei ceri votivi che l’accelerassero. E aveva continuato a farlo anche quando quella era scomparsa, non si sa bene se per tenere vivo il piacere del rito o perché la figlia l’aveva tenuta all’oscuro di quanto accaduto nel frattempo.
L’arrivo delle vacanze estive faceva sorgere alcuni problemi logistici. Premesso che la Rubiolo lasciava l’ufficio di corso Marconi per non più di una settimana, doveva poi vedersela con la Clotilde che accettava di andate al lago purché si tornasse a casa ogni sera. Ormai quasi cieca, era a proprio agio soltanto tra i suoi mobili e con il modo in cui erano disposti.
Stanca di questo faticoso va e vieni giornaliero, la Rubiolo trovò il modo di evitarlo dando vita a una soluzione che per grazia e capacità organizzativa resta probabilmente insuperata. Aveva disposto le cose in modo tale che nello spazio di tempo tra l’uscita di casa per la gita quotidiana e il rientro in serata, i mobili della stanza della madre fossero trasportati nella stanza dell’albergo sul lago e sistemati nello stesso ordine in cui stavano nella stanza da cui provenivano. Lo stratagemma aveva funzionato e qualcuno si chiede ancora se la Clotilde non se ne fosse accorta o se avesse fatto finta di niente.
Oddone Camerana