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Foto cortesia Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, Torino |
Il padre è un operaio qualificato, la madre una pantalonaia. La città è Torino, la Torino operaia e socialista. Ultimata la scuola media, inizia a lavorare, dapprima come cucitrice, poi come impiegata in officina, la sera studia lingue al Circolo filologico.
La mobilitazione contro la guerra la inizia alla politica attiva, nel sindacato, e nei gruppi giovanili e femminili socialisti. Gravita attorno all’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci fin dalla fondazione della rivista, il primo maggio del 1919. Due anni dopo, aderisce al Partito comunista d’Italia, che la invia come delegata a Mosca, al congresso dell’Internazionale giovanile: può seguire così anche il III Congresso del Comintern, in cui gli italiani, capeggiati da Umberto Terracini, sono accusati da Lenin di “infantilismo di sinistra”. Osserva e ascolta con passione i capi del comunismo sovietico e mondiale, ma anche le grandi rivoluzionarie.
La emozionano Alessandra Kollontaj, che rifiuta l’aiuto dei traduttori, e ripete il suo intervento a difesa dell’Opposizione operaia in francese, in tedesco e in inglese, incappando nella pesante ironia di Trotskij; e Clara Zetkin, che difende il “destro” tedesco Paul Levi, facendosi beffe del «sinistro» Zinoviev.
Non è appassionata ai temi dell’emancipazione femminile, anzi è convinta che la lotta di classe non debba fare divisioni tra uomini e donne. Ma già nella durissima vita di partito degli anni immediatamente successivi alla marcia su Roma, sempre più prossima alla clandestinità, matura un giudizio assai critico sul ruolo assegnato alle donne anche nel Pci che non cambierà per tutta la vita.
Si lega a un giovane e brillante dirigente, Velio Spano, in una sfortunata storia d’amore che sarà la più importante della sua vita, e assieme a Spano “cade” nel 1927. Condannata a sei anni, uscirà dalla galera, con pochi mesi d’anticipo sulla scadenza, nel 1932, dopo aver dolorosamente constatato come le detenute comuniste siano abbandonate a se stesse molto più dei loro compagni.
Nel carcere di Trani ha un “cedimento” che le verrà a lungo, e pericolosamente, ritorto contro: anche per via della (blanda) pressione delle monache, partecipa più volte alla messa, e in qualche circostanza prende anche la comunione. È malata, pesa 45 chili, e il partito clandestino, per curarla, la invia in Unione Sovietica.
Dopo un breve soggiorno in sanatorio, lavora prima in una fabbrica di bambole, poi al Glavit (l’ufficio di censura della stampa estera) e a Radio Mosca. Sono gli anni del Grande Terrore, che colpisce duramente l’emigrazione comunista italiana e lambisce anche lei. Nell’agosto 1940, viene prelevata alla Radio e portata alla Lubjanka. Nell’interrogatorio le viene contestato di essere stata l’amante di Michele Donati, ex quadro della Scuola leninista “passato al nemico”. Lei a lungo nega, poi, esausta, cessa di rispondere alle accuse.
A questo punto, l’inquisitore cambia registro, le rinfaccia il biasimo ricevuto dal partito per “la storia delle monache”, le ricorda che le persecuzioni subite nell’Italia fascista non significano nulla, perché molti compagni ben più importanti di lei sono diventati dei traditori. Felicita gli grida di chiederlo ai dirigenti comunisti italiani del Comintern, del Soccorso rosso, della Radio, se lei è una traditrice. La risposta la raggela: «Ma se sono proprio loro...».
Alla fine, accetta lo scambio: uscirà libera dalla Lujanka, ma diventerà un’informatrice della NKVD. È lei stessa a raccontarlo in un suo libro di memorie, Un nocciolo di verità, scritto con la collaborazione di Rachele Farina e pubblicato nel ‘78 da La Pietra, in cui brevemente descrive anche in cosa consistesse la sua attività: «Andrei Serghevic mi convocò di rado, e solo per chiedermi di precisare... un dettaglio, un piccolo particolare... Faceva in modo che io non riuscissi a capire su chi indagava, però comprendevo che le mie parole costituivano sempre un piccolo tassello, una tessera mancante a un suo mosaico».
Finita la guerra, chiede ed ottiene di tornare in Italia, a Torino. Lavora come segretaria di redazione prima, come archivista poi, all’Unità di Torino. È qui che la coglie “l’indimenticabile Cinquantasei”. L’Ottobre ungherese la vede dalla parte di Imre Nagy e degli insorti: «Restare non era più possibile, meglio andarsene, e anche in silenzio, per evitare, oltre alle pedate dell’esecutivo della Federazione, anche la diffamazione, allora senza possibilità di difesa a sinistra». Il 30 novembre 1957 vede per la prima e l’ultima volta Botteghe Oscure, per chiudere la pratica burocratica della sua liquidazione. Lascia il partito. Resta fedele, sino alla morte, agli ideali del socialismo umanitario.
Paolo Franchi