|
|
© Farabolafoto, Milano |
Quando Aldo Busi arriva nella villa di Varese per il sospirato appuntamento con lei già novantenne, l’impressione è notevole: «Liala è una regina e non ho mai incontrato testa coronata più composta e azzurrata di questa» sintetizza lo scrittore nel libretto pubblicato a seguito dello storico incontro. E la descrive amorevolmente come «una creatura di irragionevole bellezza, [...] di una nobiltà superiore a quella, troppo stereotipata, “noblesseobligeamente” estenuata e decadente di un Luchino, che qui, in casa Cambiasi, avrebbe potuto al massimo aspirare a un posto di maggiordomo».
Con i suoi impeccabili tailleur e completini rigorosamente coordinati – tutto si può perdonare, non un paio di scarpe stonate – la signora del rosa italiano ha mantenuto intatto, fino alla fine, quel lo charme desueto fatto di cura dei dettagli e impagabili tocchi di stile, senza mai tra sformarsi nel feticcio mostruoso di se stessa, come è accaduto a Barbara Cartland.
Amalia Liana Negretti Odescalchi nasce nel 1897 a Carate Lario, sul lago di Como, scenario fisso dei suoi romanzi. È di origine aristocratica da parte di madre, ma non è ricca; forse anche per questo sposa, giovanissima, il marchese Cambiasi, affascinante ma molto più anziano di lei.
La passione coniugale finisce presto, e Cambiasi riprende la sua vita dispendiosa di gaudente disincantato e blasé, lasciando per lunghi periodi la giovane moglie sola con la figlia Primavera.
Ma Liana non ha né il fisico né il carattere adatto ad interpretare il ruolo dell’angelo del focolare, tantomeno una di quelle fragili eroine della sconfitta, piegate dal destino, di cui pullulano i romanzi femminili dell’epoca. Santa rassegnazione, devozione, vocazione al sacrificio non sono per lei. Dietro gli occhi verde cupo («color birra Moretti» commentano i compaesani maligni) e l’onda di capelli tizianeschi, cela una ferma intenzione di vivere, e la voglia esplosiva di sentirsi al centro dell’attenzione e degli sguardi del mondo (soprattutto quelli maschili).
Il destino ha in serbo per lei un altro marchese, Vittorio Centurione Scotto, alto, aitante, di qualche anno più giovane di lei. Inoltre è un asso dell’aviazione, un eroico pilota che vince tutte le gare, splendido nella sua divisa candida.
È l’amore, anzi l’Amore con la maiuscola, come la scrittrice sempre lo chiamerà nelle memorie, nei racconti. Ma è una storia senza lieto fine: mentre, con l’aiuto del comprensivo marito, Liana cerca di ottenere un divorzio all’estero, il suo amante precipita in acqua durante un allenamento per la Coppa Schneider. La favola bella si trasforma in tragedia, mille volte narrata e ripetuta dalla scrittrice, fino a farne il mito di fondazione di un genere letterario. Perché è lei che ha inventato il romanzo rosa italiano, nutrendolo per settant’anni di un ricordo vampirizzato, strizzato fino all’ultima goccia, conservato nell’ambigua formalina delle sue trame.
Dopo la morte di Centurione, Liana accetta l’offerta del marito di tornare insieme, per ricomporre la famiglia. Pochi anni dopo, nel ‘31, esce da Mondadori il primo dei suoi circa 70 romanzi, Signorsì. «L’ho scritto per non impazzire», confesserà l’autrice. Ma a soli venti giorni dalla pubblicazione, l’editore telegrafa che il romanzo è esaurito; è l’inizio di un successo implacabile e ininterrotto che nessuna scrittrice, in Italia, ha più eguagliato.
Fu D’Annunzio a trovarle il liquido nom de plume che sarà il suo marchio di produzione, suggerendo che a una scrittrice così amica degli aviatori mancava solo un’ala nel nome. E indovinando l’indole orgogliosa e trasgressiva della giovane ammiratrice, le scriverà una famosa dedica: «A Liala, compagna d’ali e d’insolenze».
D’Annunzio aveva visto giusto: niente è più lontano dai luoghi comuni sul rosa – accusato di melensaggine, conservatorismo ipocrita, esaltazione della subalternità femminile – della narrativa di Liala. Nelle sue pagine s’aggira un fantasma pericoloso, che prende corpo fino a diventare una presenza incombente e viva: è il desiderio femminile, la sessualità negata delle donne. Non più solo palpiti, fremiti, sospiri, rossori, lacrime, occhi bassi. La scrittura di Liala non richiede forzature sul non detto, crepe nella superficie del testo, orizzonti segreti di lettura; il desiderio femminile vi circola esplicito, anzi, permea di sé la struttura narrativa.
Generazioni di lettrici l’hanno amata – e quanto – perché nei suoi libri ha saputo riprodurre le qualità del sogno, ma di un sogno che libera energie segrete, domande represse, aprendo all’esplorazione il territorio ribollente delle fantasie.
Spazio troppo femminile per essere neutrale, il romanzo rosa è stato spesso piegato a fini pedagogici; ma non da Liala. Ed è per questo che lei sola, fra le migliaia di scrittrici rosa che si sono susseguite fino agli anni Sessanta, continua ad essere pubblicata e letta. La sua morale è elastica, ma realistica: se i devianti pagano, è perché la società è fatta così, ed è meglio attrezzarsi, per non soccombere. Liala non ha insegnamenti da dare che non siano pratici o formali, niente di più che una sorta di galateo della vita, che esclude ogni puritanesimo e non propone valori. 1 valori più autentici, nelle sue pagine, sono l’amore come piacere erotico, e la cura di sé come piacere narcisistico.
«Il mio miglior romanzo è la mia vita», ripeteva nelle interviste. E si è barricata con ostinazione dentro il geniale gioco di finzioni biografiche e letterarie che ha messo in piedi, fragile castello di carte che ha resistito per tutta un’esistenza, stravolgendo le severe regole del rosa.
Invece di nascondere la sua relazione, l’ha sbandierata, invece di porre al centro della scena il matrimonio, ha rivendicato orgogliosamente la legittimità del suo adulterio. Eppure non ha vissuto una vita disgraziata, non è stata punita, anzi è tornata tra le braccia consolatorie del marito, ha avuto una seconda figlia, ha conosciuto il successo e l’universale comprensione per le sue pene d’amore. Tra Ombre di fiori sul mio cammino e Farandola di cuori, tra Melodia del l’antico amore e Frantumi di arcobaleno, Liala ha aperto, per le sue lettrici, un piccolo spiraglio su azzardate speranze di libertà.
Eugenia Roccella