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Archivio Milton Gendel, Roma |
Anna Laetitia Pecci Blunt, chiamata Mimì dagli amici – grande collezionista e mecenate romana, self made woman ben prima che l’espressione andasse di moda – era mia nonna. Da bambina, andavo a trovarla ogni domenica mattina, alle undici in punto.
Seduta in fondo al letto e schiacciata contro la spalliera, spettatrice molto intimidita da quella personalità che riempiva ogni spazio, ascoltavo i suoi racconti seguiti dalle dense risate mentre, in una nuvola di fumo, tre perfidi gatti d’angora capaci di distruggere indumenti e tappeti mi si strofinavano addosso con alte fusa di trionfo. Parlava a raffica in cinque lingue (più l’accento romano) di quello che le passava in mente: del futuro, della vita, dell’arte, dell’immaginazione – secondo lei – forma aggrovigliata e non sfoltita della memoria. Non capivo granché ma con occhi sgranati mi lasciavo fare, incantata.
Il padre, Camillo Pecci, capo della Guardia Nobile Pontificia, era nipote di Leone XIII e la madre una stravagante aristocratica spagnola che, secondo Mimì, prima ancora che fosse inventata la radio captava le onde magnetiche. Forse, era solo un sistema per farmi ridere ma funzionò tant’è che oggi, quando ci penso, trovo la cosa esilarante. Nel 1919 sposò Cecil Blumenthal, banchiere newyorkese proprietario per parte di padre di una meravigliosa collezione di pittura francese dell’Ottocento e, nella loro casa parigina, invitavano e sostenevano giovani artisti e intellettuali come Salvator Dalì, Georges Braque, Jean Cocteau, Paul Valéry, Francis Poulenc, Paul Claudel, Pablo Picasso.
Nel 1929, acquistarono «lo straordinario palazzo del ‘400 affacciato sul Campidoglio» in Piazza dell’Ara Coeli a Roma, che divenne dai primi anni Trenta la sede d’importanti avvenimenti e nel 1933, Mimì con gli amici musicisti Goffredo Petrassi, Vittorio Rieti e Mario Labroca, diedero inizio ai “Concerti di primavera” con programmi di musica classica e moderna; ospitando Stravinskij, Milhaud, Poulenc, Sauguet, Auric, Honegger. Ai concerti si alternavano conferenze di poeti, scrittori, saggisti, archeologi di tutto il mondo che lei definiva «i miei parenti illustri» e che le furono sempre grati del suo intuito che li rese, immancabilmente, un fait accompli.
Da lei, s’incontravano Giuseppe Ungaretti, Emilio Cecchi, Bruno Barilli, Corrado Alvaro, Alberto Moravia, Trilussa, Massimo Bontempelli, Alberto Savinio, Margherita Sarfatti, Sibilla Aleramo, Renato Guttuso, Corrado Cagli, Afro e Mirko Basadella. La sua collezione, oltre ai quadri di artisti già celebri (Severini, Martini, De Chirico, Scipione Foujita) si aprì ai giovani talenti della «Scuola Romana», comprendendo opere di Corrado Cagli, Mario Mafai, Renato Guttuso, Morandi e dopo la seconda guerra mondiale, Toti Scialoja, Consagra, Clerici e altri giovani artisti di punta.
Il ruolo che Mimì Pecci Blunt intendeva svolgere nelle vicende artistiche italiane, non era limitato solo al collezionismo o all’organizzazione di gallerie, ma, come risulta da un dossier nell’Archivio Centrale di Stato, era un ampio progetto cultural-politico che prevedeva lo sviluppo dell’arte italiana a New York e a Parigi, in accordo con il ministero della Cultura Popolare.
Infatti, nell’aprile del 1935, inaugurò con l’aiuto di Libero De Libero (direttore fino al 1938, finché le leggi razziali lo permetteranno) la Galleria della Cometa (l’emblema scelto, la Cometa, era l’insegna araldica di papa Leone XIII): luogo d’incontro e centrale del tonalismo romano, con aperture all’espressionismo. Era costituita da due piccole sale. Così le ricorda Oppo ne La Tribuna del 1935: «Le pareti rivestite di juta giallognola, i pavimenti in linoleum verde oliva cupo, candidi soffitti illuminati con sobrietà, un angoletto di riposo nella parte più segreta della galleria».
Incastrata nel muro, a fianco dell’ingresso, c’era una colonna romana con capitello ionico. Diventerà la vetrina di Cagli, Fazzini, Mirko, Caporossi, Fausto Pirandello e addirittura nel ‘37 di Carlo Levi, freschissimo reduce. Le presentazioni, di solito, venivano affidate ai letterati piuttosto che ai critici: Bontempelli, Ungaretti, Alvaro, Cecchi, De Chirico, Savinio, Barilli, Soffici, Moravia. L’annata del 1938 si chiuse con una mostra di cinquanta disegni di Vincenzo Gemito e proprio in quei mesi, l’attività della Galleria divenne oggetto di una durissima campagna giornalistica, condotta da Telesio Interlandi, direttore de II Tevere, in cui emerse il rancore antisemita, antiamericano, antimodernista della più retriva destra fascista.
«Mi dispiace che certa gente così ignorante del modo di servire la Patria, non venga pregata di stare zitta», scrive Mimì al ministro della Cultura Italiana, prima di chiudere la galleria per incidenti razziali. A quel punto, amareggiata e avendo inaugurato alla fine del 1937 una succursale della Cometa a New York, vi si trasferì, rimanendovi pressappoco dieci anni.
La prima mostra fu un’antologica di pittura italiana: seguirono personali di Cagli, Mirko, Carrà, de Pisis, Severini e una rassegna del disegno italiano contemporaneo.
«Qui, tutti fanno a gara per manifestare la loro simpatia. La Signora Roosevelt, madre del Presidente, ha accettato subito di far parte del Patronato ed è anche venuta a visitare la Galleria e così spero potrà fare anche il Sindaco La Guardia che me lo ha promesso. Spero di essere riuscita a chiarire così tante cose dell’arte italiana che era del tutto ignorata, e aiutare quegli artisti già noti che venivano sempre e comunque attribuiti alla Scuola di Parigi».
«È la prima volta che nella città di New York – scrive Libero De Libero nel 1938 su Domus – ove le gallerie d’arte francesi dominano il mercato e l’attenzione, si rende esatto conto della nostra arte contemporanea».
Indro Montanelli, grande amico di Mimì la ricorda quando fu suo ospite alla Villa Reale di Marlia, acquistata nel 1926 e affidata al famoso architetto Jacques Greber perché restaurasse integralmente il parco e i giardini, «la comprammo e a quel tempo apparteneva a tre pescicani di Lucca, tre burini, che non sapevano cosa farsene. Elle était en ruine, d’ailleurs. L’ultimo inquilino di classe, dopo Elisa Baciocchi, era stato il duca di Capua: un grassone che aveva sposato un’inglese, era stato esiliato da suo fratello il re di Napoli, aveva cospirato contro di lui, e s’era fatto ripagare il servizio da Vittorio Emanuele con la villa. Nell’archivio c’era tutta la sua corrispondenza con Francesco di Borbone. He was a character, Francesco di Borbone. Ma questa è un’altra storia...»
Daria Galateria, nel suo recente libro Entre Nous (Sellerio) riporta un altro esilarante racconto di Montanelli. «Mimì Pecci Blunt, mentre parla, è in lotta con la veletta, che le ricade sul naso, dove vorrebbe relegarla, sul mento, e nei momenti meno propizi, quando cioè porta alla bocca la sigaretta; che le sgronda cenere sul grembo. Lei però non se ne accorge, essendo indaffarata a cercare gli occhiali sul tavolo, a tastoni, per non distogliere gli occhi dall’interlocutore. A un certo punto crede di averli trovati, e se li infila. Ma si tratta in realtà, non degli occhiali ma del bocchino, che, sospeso sul lobo dell’orecchio, sta in postazione come un mortaio.
Mimì Pecci Blunt, mentre racconta la Parigi dell’età del jazz, rinuncia alla lotta con la veletta, e si mette la sigaretta in bocca attraverso i varchi tra i fili, che si bruciano. Montanelli paventa l’incendio, ma Mimì, aggiustandosi i capelli, incontra il bocchino provvidenziale, e lo preleva per piazzarci la sigaretta, sempre fissando l’interlocutore, ma d’improvviso consapevole di non avere gli occhiali. Lo sa il maggiordomo, che ha visto la contessa sedercisi sopra, triturandoli. E per ora brandisce una spazzola, aspettando la fine della conversazione; pronto a trarre via dall’abito della contessa le tracce di dieci sigarette. Ma Mimì si alza, un rivolo di cenere scorre lungo il vestito, come lava lungo le pendici dell’Etna; il maggiordomo, senza un parola, perché deve essere un gesto rituale, vi passa un colpo di spazzola. Mimì racconta intanto la storia del disegno di Modigliani che passa davanti al loro cammino verso l’altana.
“Me lo rivendé Cocteau un giorno che stava in bolletta, e aveva bisogno di soldi, poveraccio. Ravissant n’est pas? Il guaio è che in bolletta ce stavo pure io perché proprio in quei giorni [...] no, ma questa è un’altra storia”».
La sua attività culturale proseguì in modo energico tanto che ritornata a Roma, fondò nel 1958 il Teatro della Cometa. Le fu regalato dal marito per il loro anniversario di nozze, perché potesse idearne uno simile a quello che Charles de Bestegui aveva concepito nel Château de Groussay a Montfort l’Amaury in Francia. Mimì volle che fosse annesso al suo palazzo in Piazza dell’Ara Coeli e ne affidò la progettazione a Tommaso Buzzi, allora l’architetto più noto d’Italia.
Vi si esibivano giovanissimi attori, cabarettisti, cantanti che diventeranno, poi, molto famosi. Ricordo di aver ascoltato Enzo Iannacci in concerto, allora poco più che ventenne, e di aver visto Franca Valeri nella “Sora Cecioni” e la “Signorina Snob”, primissime versioni. Nel 1960, Anna Laetitia Pecci Blunt ricevette dal governo italiano la Medaglia d’oro per l’arte e la cultura, e la Legion d’Honneur del 1964.
Io, che a quei tempi credevo di essere una bambina infelice per natura, l’ascoltavo mentre mi suggeriva di usare – quando possibile – un’intelligenza lineare, di avere fiducia, di guardarmi allo specchio e fare due più due, di capire che la vita è tutta una questione di convenzioni. Vanno accettate per potersi meglio orientare e non lasciarsi sviare da sogni spropositati, da finte e romantiche ribellioni che fanno soltanto perdere tempo.
«Dopo, da una posizione di forza – diceva – potrai sgambettare quanto ti pare». «Ah – rispondo oggi – se solo l’avessi ascoltata!».
Gaia de Beaumont