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La sera del 2 luglio 1849, formalmente incaricato dal governo della Repubblica di portare la guerra nelle provincie dello Stato pontificio, Giuseppe Garibaldi uscì da Roma al comando di circa 4.700 uomini, in maggioranza volontari ma anche bersaglieri lombardi e dragoni pontifici passati alla Repubblica. Nessun rappresentante del governo, invece, si unì alla spedizione. La colonna, lunga quasi 5 chilometri – che a Tivoli venne organizzata in due legioni e un reggimento di cavalleria –, era circondata da circa 80 mila soldati appartenenti alle truppe francesi, austriache, spagnole, napoletane e toscane. Garibaldi, però, riuscì ad evitare lo scontro armato con i reparti nemici grazie ad un uso intelligente della cavalleria che, distaccata in piccole pattuglie, riusciva sia ad informare il nizzardo sulle mosse da attuare che ad ingannare il nemico sulla destinazione e sulla reale forza al seguito del nizzardo. L'8 luglio la colonna degli ex combattenti della Repubblica Romana arrivò a Terni, dove li attendeva un battaglione di volontari arruolato dall'ex colonnello inglese Ugo Forbes, l'11 giunse a Todi e poi il 15 si spostò ad Orvieto. Braccato dalle truppe austriache, Garibaldi decise, prima, di sconfinare in Toscana, dove comunicò alle sue truppe la decisione di andare a Venezia per combattere in difesa della Repubblica, e poi di passare nelle Marche per la Bocca Trabaria, risalendo la zona di Montefeltro fino a San Marino. La durezza delle marce (otto ore notturne e tre di pomeriggio), le difficoltà nei rifornimenti, il caldo estivo e, in alcuni casi, come ad Arezzo, l'ostilità delle popolazioni, provocarono le diserzioni di molti combattenti al seguito del nizzardo. A fine luglio la colonna si era assottigliata a poco più di 1.500 uomini. Dopo un'estenuante marcia sugli Appennini, stretto nella morsa delle truppe austriache che lo inseguivano, Garibaldi riuscì a condurre i superstiti nella piccola Repubblica di San Marino dove dichiarò al Reggente di deporre le armi e di venire come «rifugiato». Con un ordine del giorno, inoltre, sciolse i volontari dall'obbligo di accompagnarlo e riconobbe che la «guerra romana per l'indipendenza d'Italia» era finita.
Nella notte del 31 luglio, dopo aver respinto le condizioni di resa imposte dagli austriaci che con alcune truppe circondavano la piccola Repubblica, Garibaldi riuscì a fuggire da San Marino, seguito da Anita, incinta e febbricitante, da Giovanni Battista Culiolo, detto “Leggero” dal frate barnabita Ugo Bassi, da Angelo Brunetti detto “Ciceruacchio” e da circa 200 volontari. Il 1° agosto, dunque, ebbe inizio la cosiddetta “trafila” romagnola, ovvero la rete di patrioti e democratici che, dopo aver sostenuto la Repubblica romana, aiutarono Garibaldi nella fuga dai Territori pontifici per raggiungere il Regno sabaudo. Proprio grazie all'aiuto di questa rete di patrioti, lo sparuto manipolo di ex combattenti della Repubblica romana che aveva abbandonato di notte la Repubblica di San Marino, riuscì a superare la via Emilia e a raggiungere Cesenatico. Dopo aver preso il controllo del porto, i fuggiaschi sequestrarono alcune barche da pesca e all'alba del 2 agosto si imbarcarono per cercare di raggiungere Venezia via mare. Tuttavia, non lontano da Punta di Goro, una piccola flotta austriaca, capeggiata dal brigantino Oreste, avvistò il naviglio e, dopo averlo bombardato, riuscì a catturare molti volontari che furono condotti come prigionieri a Pola. Altri patrioti, invece, che in un primo momento erano riusciti a sfuggire alla squadra austriaca, vennero catturati sulla terraferma e fucilati: tra questi Ugo Bassi, Giovanni Livraghi, “Ciceruacchio” e i suoi due figli, di cui uno tredicenne.
Garibaldi, “Leggero” e Anita ormai agonizzante, riusciti a sfuggire alle navi austriache e a sbarcare non lontano da Magnavacca, in una delle isole della laguna di Comacchio, vennero aiutati da Nino Bonnet, ufficiale della guardia civica di Comacchio, che riuscì ad organizzare la fuga tra le valli. Il 4 agosto, però, a Mandriole, nella cascina del marchese Guiccioli condotta dai fratelli Ravaglia, Anita Garibaldi muore. Il nizzardo e “Leggero” continuarono la marcia tra boschi e acquitrini – la sera del 6 agosto arrivarono al capanno di caccia del Pontaccio, ancora oggi visitabile – e aiutati dalla rete dei democratici i due superstiti varcarono il confine dello Stato pontificio nella notte tra il 15 e il 16 agosto. Nella Romagna toscana vennero aiutati da don Giovanni Verità, parroco di Modigliana, che, dopo averli nascosti nella propria abitazione, organizzò l'ultima fase della fuga, ovvero la traversata dell'Appennino. Dopo una lunga marcia attraverso sentieri impervi, i fuggiaschi arrivarono al passo delle Filigare ma, per un contrattempo, persero i contatti con don Giovanni Verità. Garibaldi e “Leggero” si misero in marcia da soli e in un albergo di campagna incontrarono un giovane ingegnere, Enrico Sequi, che rimise i due patrioti in contatto con l'organizzazione che aiutava i perseguitati politici ad espatriare. All'alba del 2 settembre i fuggiaschi vennero portati verso la Cala Martina, nei pressi di Follonica, dove li attendeva un'imbarcazione che, nel giro di pochi giorni, il 5 settembre, avrebbe sbarcato i due fuggiaschi a Porto Venere, nel golfo di La Spezia, nel Regno di Sardegna.
Le vicende del 1849 accrebbero notevolmente la fama di Garibaldi in Italia e in Europa. La stampa, infatti, non solo aveva dato rilievo alla difesa di Roma ma aveva anche «raccontato» l'incredibile marcia di Garibaldi tra gli eserciti nemici – dalle soste negli abitati alle imposizioni di contributi, dalle minacce ai religiosi alla pubblicazione di bandi per la cattura del nizzardo – arrivando perfino a narrare episodi del tutto inventati o frutto dell'opposta propaganda politica. Infatti, se il giornale torinese «La Concordia», il 16 agosto, dodici giorni dopo la morte di Anita, aveva annunciato che Garibaldi e Anita avevano raggiunto Venezia, la «Gazzetta di Bologna», il 20, aveva pubblicato la notizia della morte di Anita per strangolamento. Notizia poi smentita dall'autopsia e dall'autorità giudiziaria. Il 21 agosto, invece, «Il Fischietto» pubblicò una vignetta destinata poi a diventare celebre in cui, deridendo gli austriaci che si erano fatti sfuggire la preda, vi era scritto: «Anche questa volta pirpante diavolo rosso poter scappar per inferno». Il 7 settembre, infine, sempre «La Concordia» annunciò che Garibaldi era giunto sano e salvo a Chiavari. Galleria immagini
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