I movimenti politici
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Nell'età della Restaurazione il liberalismo italiano ebbe un carattere piuttosto esile, minoritario, e non produsse opere di risonanza europea. Del resto, non avrebbe potuto essere diversamente considerato il quadro generale del Paese: condizioni economiche molte arretrate, ritardo nella formazione dei ceti medi, asservimento allo straniero, assenza di libertà di stampa e assoluta impossibilità di condurre un dibattito politico. Anche per questo, il liberalismo delle origini non costituì un movimento politico; esso fu piuttosto un orientamento culturale ed ebbe la sua prima manifestazione, il suo primo nucleo organizzato, nella rivista milanese «Il Concilatore» (1818-1819). Gli uomini che vi collaborarono (Ludovico di Breme, Silvio Pellico, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet, per citarne alcuni) condussero essenzialmente una battaglia culturale, non priva tuttavia di una implicazione politica: «il ‘risorgimento letterario' dell'Italia», è stato notato, «era la precondizione per il suo ‘risorgimento politico', concepito come conquista dell'indipendenza dall'esterno e come affermazione delle moderne libertà costituzionali all'interno» (S. De Luca). Accanto ad alcuni temi di chiara derivazione illuministica (il progresso tecnico-economico, l'utilità generale) nella rivista confluivano idee tipicamente romantiche come quella di nazione, le cui origini erano fatte risalire al medioevo. Secondo un'idea presente nel «Conciliatore», ma che sarebbe divenuta poi centrale nella storiografia di orientamento cattolico-liberale, la tradizione nazionale italiana si fondava infatti sulla continuità storica tra l'Italia moderna e l'Italia medioevale. Questi primi romantici liberali («romantico» in quegli anni divenne sinonimo di «liberale») si richiamavano soprattutto ai classici del liberalismo moderno (da Adam Smith a Montesquieu) e nutrivano simpatia per le teorie politico-istituzionali elaborate da autori liberali ad essi contemporanei: Madame de Staël, lo storico ginevrino Sismondi (la cui Storia delle Repubbliche italiane del Medio Evo influenzò molto i collaboratori del «Conciliatore», ed egli stesso vi scrisse), Benjamin Constant. Quest'ultimo, in una conferenza parigina del 1819, aveva spiegato in che cosa consisteva la «libertà dei Moderni», cioè degli uomini contemporanei: stava in un sistema di garanzie volto a difendere la libertà privata di ogni singolo individuo dagli arbitrii del potere. Le preferenze degli uomini del «Conciliatore» andavano dunque a quei paesi (Francia, Inghilterra, Stati Uniti) in cui esistevano, appunto, le «libertà dei Moderni» e alcuni diritti: la libertà di pensiero, di stampa e di associazione, la libertà religiosa e di movimento, le garanzie giudiziarie, l'eguaglianza di fronte alla legge, la divisione dei poteri, le istituzioni rappresentative. La loro idea di libertà non era dunque confinata nella sfera privata, bensì connessa a quella pubblica: era cioè una libertà di tipo politico-costituzionale. I loro principali bersagli polemici erano, di conseguenza, i princìpi e i valori dell'ancien régime: l'autorità arbitraria, anzitutto, ma anche i privilegi aristocratici, perché non fondati sul merito individuale. Se la nazione, l'indipendenza e la libertà (civile e politica) costituivano i principali valori di riferimento, altri concetti come l'unità, l'autogoverno popolare, l'organizzazione in partiti erano invece fuori dell'orizzonte liberale. Rispetto ai modelli politico-istituzionali, i liberali della Restaurazione erano fautori di una monarchia costituzionale fondata su un patto tra il sovrano e il popolo. In anni in cui lo stesso liberalismo europeo andava definendo i suoi caratteri e producendo i suoi frutti, la monarchia costituzionale di Luigi Filippo d'Orléans (nata nel 1830 e ispirata alla teoria del just milieu di François Guizot, altro autore di riferimento), parve a molti liberali italiani un valido modello. Il «Conciliatore» venne soppresso nel 1819. Ma in quella breve esperienza apparivano già delineati alcuni caratteri di quelle posizioni liberali che avrebbero acquisito un forte rilievo politico tra il 1840 e il 1848: la ricerca di una tradizione nazionale nel passato; la simpatia per i sistemi politici costituzionali e rappresentativi; l'aspirazione al progresso economico; l'attenzione per alcuni problemi di carattere sociale, fra cui la diffusione della cultura nel mondo femminile e l'istruzione popolare.
Negli anni successivi queste tendenze politico-culturali trovarono espressione soprattutto nel gruppo dell'«Antologia» (1821-1833), la rivista fondata a Firenze da Giovan Pietro Vieusseux. Rispetto al «Conciliatore», la rivista privilegiò soprattutto argomenti riguardanti l'economia (e in modo particolare l'agricoltura), la statistica, le scienze naturali, l'educazione popolare. Il gruppo costituitosi intorno a Vieusseux e a Gino Capponi aspirava a una funzione di guida culturale in Italia; parallelamente, intendeva agire da stimolo per una trasformazione dell'ordinamento politico in Toscana (e in prospettiva in Italia), in collaborazione con il governo granducale. Tale aspirazione andò però delusa e «L'Antologia » fu chiusa nel 1833. Il liberalismo trovò nelle accademie agrarie, nei circoli e in alcuni salotti nobiliari alcuni importanti luoghi di elaborazione. Al suo sviluppo contribuirono però in modo rilevante i Congressi degli scienziati che si tennero fra il 1839 e il 1847 in varie città italiane. I Congressi erano dedicati allo studio dei problemi economici e sociali del mondo contemporaneo (dall'agricoltura all'istruzione, dalla salute pubblica alle carceri), nonché alla storia, alla geografia, all'archeologia. Essendo dappertutto vietata ogni discussione di argomento politico, l'opinione liberale si consolidò in genere attorno allo studio dei problemi concreti, acquistando ascolto e prestigio presso i ceti medio-alti. In particolare, attraverso i Congressi si affermò l'idea che la libertà di commercio, l'unificazione del mercato interno e lo sviluppo delle ferrovie costituissero i presupposti essenziali per il futuro sviluppo delle popolazioni italiane. Al di là dei risultati raggiunti (che furono di non grande portata), i Congressi permisero a centinaia di studiosi provenienti dai diversi Stati italiani di incontrarsi e di discutere su tutta una serie di questioni. In questo senso, si può dire che quegli incontri contribuirono a formare una prima bozza del programma liberale e, in prospettiva, la futura classe dirigente del Paese. Quasi tutti coloro che avevano preso parte ai Congressi, infatti, avrebbero svolto un ruolo politico tra il 1848 e i primi decenni unitari. Parallelamente, il liberalismo italiano si espresse attraverso una vasta attività letteraria, storiografica e filosofica. In alcuni casi, tale produzione aveva evidenti rapporti con quella corrente che può definirsi cattolico-liberale. Essa tendeva infatti a conciliare il liberalismo con il cattolicesimo - vista come elemento unificante della nazione - e valutava positivamente il ruolo della Chiesa e del papato nella storia nazionale. Da questa multiforme attività culturale prese corpo una vasta corrente d'opinione che, fra il 1840 e il 1848, sembrò dotarsi di un più chiaro programma politico per il conseguimento dell'indipendenza. Si trattava di un programma risolutamente avverso a soluzioni di tipo rivoluzionario, del quale costituzionalismo e federalismo costituivano i principali punti.
In quegli anni essere liberali significò soprattutto questo: essere fautori di una monarchia costituzionale e cercare una soluzione del problema nazionale attraverso il coinvolgimento delle monarchie esistenti. Come scrisse nel 1847 Massimo d'Azeglio nella sua Proposta di un programma per l'opinione nazionale italiana, «se i sovrani italiani non vogliono che i loro sudditi divengano liberali esaltati, debbono farsi essi medesimi liberali moderati». In questo quadro si auspicava non l'Unità d'Italia, ma una federazione tra i vari Stati esistenti, realizzata per iniziativa degli stessi sovrani. Tale ipotesi ebbe l'effetto di avvicinare alla causa nazionale un'ampia parte dell'opinione pubblica contraria al metodo insurrezionale. Come scrisse lo storico Luigi Salvatorelli, «il significato del programma nazionale moderato per il Risorgimento consistette nella propaganda dell'idea nazionale presso vasti ceti che altrimenti sarebbero rimasti ad essa estranei». Da tutti questi motivi dovrebbe risultare evidente che la soluzione che i liberali davano al problema nazionale si contrapponeva radicalmente, sia per i metodi sia per gli obiettivi, alle proposte avanzate da Mazzini e dalle varie correnti democratiche. Le posizioni moderate del liberalismo ebbero una importante elaborazione teorica nella versione che fu detta del neoguelfismo, grazie al Primato morale e civile degli italiani (1843) di Vincenzo Gioberti che teorizzava la nascita di una confederazione italiana presieduta dal pontefice. Ma gli avvenimenti del 1848-49 – l'affermarsi in varie parti d'Italia di un'ipotesi democratico-rivoluzionaria e il ritiro di Pio IX dalla prima guerra d'indipendenza – segnarono la sconfitta del neoguelfismo, dell'ipotesi federalista moderata e in generale di ogni soluzione di compromesso fondata su un accordo costituzionale con i vari sovrani della penisola. Nel decennio successivo (1849-1859) furono sia Massimo d'Azeglio, primo ministro sardo per breve tempo, sia soprattutto Cavour a dare sostanza e contenuto liberali all'azione di governo e a fare del Piemonte, l'unico Stato costituzionale della penisola, anche il più moderno. Fu proprio per questo che molti patrioti di altre parti d'Italia riconobbero sempre più al Regno di Sardegna – unico Stato costituzionale ormai esistente nella Penisola - il ruolo di guida del movimento per l'indipendenza nazionale. Una tappa importante nella modernizzazione in senso liberale dello Stato sabaudo fu rappresentata dalle leggi che riordinavano i rapporti tra Stato e Chiesa eliminando i privilegi dei quali il clero ancora godeva. Con Cavour la politica liberale del Piemonte assunse un carattere più moderno e dinamico. Questo avvenne attraverso il cosiddetto «connubio», vale a dire attraverso l'alleanza che Cavour, subito prima di diventare egli stesso presidente del Consiglio (1852), concluse con il cosiddetto Centro-Sinistra di Rattazzi. Grazie al «connubio» la politica riformatrice di Cavour «fu molto più aggressiva di quella azegliana» (R. Romeo), in particolare in relazione ai rapporti tra Stato e Chiesa.
In questa fase, infatti, la politica cavouriana nei confronti della Chiesa affiancò a un orientamento separatista (poi esemplificato dalla famosa formula «libera Chiesa in libero Stato») un attivo intervento dello Stato nella vita delle organizzazioni ecclesiastiche. Venne attuata infatti la soppressione di tutti quegli enti religiosi di tipo contemplativo che Cavour considerava un «relitto del medioevo» (A. C. Jemolo), giacché la società moderna, a suo avviso, si fondava sul principio e la pratica del lavoro; dunque - affermava Cavour nel 1855 - «tutti gli Ordini religiosi i quali si fondano sopra il voto strettamente contemplativo, o che riposano sul principio della mendicità, sono ora radicalmente inutili, sono ora dannosi». In campo economico, il liberalismo di Cavour si manifestò con provvedimenti che favorirono gli scambi e il commercio con l'estero, nella convinzione che la libertà economica costituisse la premessa indispensabile per quella politica. Tra gli esponenti di primo piano del liberalismo italiano al momento dell'unificazione, va inoltre ricordato Marco Minghetti, soprattutto perché autore di un progetto di decentramento amministrativo che venne però immediatamente accantonato. Con quel progetto Minghetti dava espressione a uno degli elementi di fondo del liberalismo dell'epoca, l'ammirazione per il sistema inglese di self government. Se questo sistema non venne attuato in Italia, fu soprattutto per la grave situazione creatasi nel Sud del paese all'indomani dell'Unità. Di fronte all'esteso fenomeno del «brigantaggio», la classe dirigente liberale (la cosiddetta Destra storica) abbandonò qualunque ipotesi di decentramento, nel timore che esso potesse rafforzare i fautori del vecchio regime borbonico e mettere così a rischio il nuovo ordinamento statale. La politica liberale della Destra storica fu caratterizzata anche per questo da un forte accentramento. Ciò peraltro corrispondeva alle propensioni «stataliste» di quella corrente di liberali meridionali che, come i fratelli Silvio e Bertrando Spaventa, si richiamavano alla concezione hegeliana dello Stato etico. Per questa via l'individuo stesso (la cui autonomia dallo Stato era tanto fondamentale nel liberalismo classico di matrice franco-inglese) finiva con l'identificarsi invece con lo Stato. Come scrisse Silvio Spaventa «ciò che vi ha di più veramente nuovo nella coscienza europea è che lo Stato […] è intrinseco a noi come il nostro naturale organismo, perché la legge, il diritto, l'autorità, che ne sono le funzioni essenziali, sono puro volere umano». Schede collegate: Cavour, cattolicesimo liberale, federalismo, neoguelfismo Il liberalismo nel Risorgimento Nelle pagine che seguono lo storico Guido De Ruggiero, autore di una importante Storia del liberalismo europeo pubblicata per la prima volta nel 1925, analizza i caratteri del liberalismo politico italiano intorno al 1840, sottolineandone l'«arretratezza» rispetto a quello inglese e francese. G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, con prefazione di E. Garin, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 288-295.
Proposta di un programma per l'opinione nazionale italiana (1847) Nel 1847 venne pubblicato uno scritto di Massimo d'Azeglio dal titolo Proposta di un programma per l'opinione nazionale italiana, qui riprodotto. Lo scritto rappresentava una sorta di manifesto-programma del liberalismo moderato, nel quale si auspicava un'alleanza tra i principi della penisola e un vasto piano di riforme. Riprodotto in: Il Risorgimento. Storia, documenti, testimonianze, a cura di L. Villari, III, La biblioteca di Repubblica-L'Espresso, 2007, pp. 448-452.
Le speranze di Cavour per la nazione italiana (1846) In un saggio del 1946, Cavour si diceva fiducioso per l'avvenire dell'Italia e auspicava l'indipendenza nazionale quale bene supremo, da raggiungere attraverso lo sforzo e l'impegno di tutti gli abitanti della penisola, per la gran parte «stranieri» gli uni agli altri. Proprio per questo sottolineava l'importanza della ferrovie che avrebbero unito, materialmente e spiritualmente, gli italiani. Riprodotto in: D. Mack Smith, Il Risorgimento italiano. Storia e testi, I, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 121-127. |