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L'intero processo risorgimentale fu accompagnato da una lunga serie di cospirazioni e tentativi insurrezionali; fu inevitabilmente segnato perciò da una lunga schiera di «martiri», cioè di patrioti arrestati e spesso condannati alla pena capitale dai governi della penisola, ma qualche volta semplicemente e brutalmente uccisi. Fu quest'ultimo il caso del massacro dei repubblicani di Napoli nel 1799, che benché preceda l'epoca del Risorgimento in senso proprio, fu ben presente alle successive generazioni di patrioti e in questo senso può dunque essere collocato all'inizio del martirologio risorgimentale. Nei decenni successivi, oltre al Regno delle Due Sicilie, fu soprattutto l'Austria ad esercitare una dura repressione nei suoi territori, attraverso la condanna alla carcerazione (particolarmente dura quella nella fortezza boema dello Spielberg, in cui fu recluso tra gli altri Silvio Pellico) o attraverso esecuzioni capitali.
Se negli anni Venti le condanne a morte che colpirono i patrioti del Lombardo-Veneto furono commutate in carcere duro, soprattutto dopo il 1848-1849 la pena capitale poté essere comminata anche per reati di limitata gravità. Fu questo il caso, ad esempio, del tappezziere Amatore Sciesa, fucilato a Milano il 2 agosto 1851, due giorni dopo che era stato sorpreso ad affiggere manifesti di incitamento alla ribellione contro il governo austriaco. Uno degli episodi più gravi fu quello dei «martiri di Belfiore», i patrioti appartenenti all'organizzazione clandestina mazziniana processati e poi giustiziati nel 1852-53 nel forte di Belfiore, nei pressi di Mantova, dopo che tutti, piegati dalle torture, avevano finito per confessare la loro attività cospirativa. Alcuni di loro erano sacerdoti, ciò che testimonia una significativa adesione del clero al movimento nazionale. Alla dura repressione delle attività cospirative corrispondeva, dalla parte dei patrioti, una disponibilità apertamente dichiarata a sacrificare la vita per l'indipendenza e la libertà d'Italia. «Chi per la patria muor / vissuto è assai, / la fronda dell'allor / non langue mai. / Piuttosto che languir / sotto i tiranni / meglio è di morir / sul fior degli anni». Così cantavano – utilizzando (appena modificate) le parole del coro di Caritea regina di Spagna, un'opera di Mercadante – i fratelli Bandiera e i loro compagni. Era il 25 luglio 1844 e si stavano avviando verso il vallone di Rovito, nei pressi di Cosenza, dove sarebbero stati fucilati.
L'episodio, vero o inventato che sia, ben esemplifica appunto quella disponibilità a dare la vita per la patria, quell'esaltazione del martirio dunque, che caratterizzavano l'universo mentale dei patrioti del Risorgimento. Uno di costoro – Giovanni Visconti Venosta – avrebbe ricordato in questo modo la sua lettura dei testi di d'Azeglio e di Giusti, di Gioberti e di Pellico, di Balbo, di Mazzini e di tanti altri esponenti – sul versante letterario o su quello più direttamente politico – del patriottismo risorgimentale: «li leggevo e rileggevo, riscaldandomi sempre più a questo nuovo fuoco della patria ideale». Ripetendo i versi di Giovanni Berchet, aggiungeva Visconti Venosta, lui e tanti suoi coetanei (appartenenti alla gioventù colta del tempo) «pregustavano la voluttà di farsi uccidere per la patria: e questo sentimento rimase alto nei loro animi fino al giorno in cui furono chiamati a farsi ammazzare davvero». Dietro l'esaltazione del martirio, dietro la disponibilità al sacrificio della propria vita, così caratteristiche della cultura risorgimentale, c'erano letture, inclinazioni, sentimenti tipici dell'epoca romantica. Ma quell'esaltazione e quella disponibilità si manifestarono probabilmente con una intensità peculiare in chi si richiamava all'insegnamento di Mazzini, come appunto i fratelli Bandiera o i martiri di Belfiore. Fu il fondatore della Giovine Italia più di chiunque altro, infatti, a costruire attorno alla battaglia per l'indipendenza nazionale una vera e propria religione politica che aveva nella predicazione del sacrificio della vita uno dei suoi punti principali. «L'Angelo del martirio – sosteneva – è fratello dell'Angelo della vittoria»; ciò significava che la continua ripetizione di iniziative, pur all'apparenza disperate, avrebbe comunque avvicinato il raggiungimento della meta agognata, rappresentata dalla libertà e dall'indipendenza d'Italia. Centro della religione politica mazziniana, l'esaltazione del martirio aveva anche una importanza non secondaria sul piano concreto dell'azione cospirativa. L'organizzazione di imprese armate contro i governi esistenti nella penisola implicava infatti un alto rischio di finire in carcere o d'essere condannati a morte: esigeva dunque, per essere intrapresa, la preventiva disponibilità a sacrificare appunto la propria vita, nella convinzione che per la libertà e l'indipendenza della patria (sono ancora parole di Mazzini) «grande è il combattere e bellissimo il morire». Era un'etica del sacrificio che aveva, evidentemente, una intrinseca connotazione democratica, poiché poteva essere condivisa (fino alle estreme conseguenze) da chiunque lo avesse voluto. Nella raffigurazione leggendaria che presto si elaborò di tante sfortunate azioni mazziniane (e non solo) il martirio finiva quasi col diventare esso stesso il principale obiettivo. Così, nei versi famosi della Spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini, Pisacane – interrogato da una contadina del luogo – risponde: «O mia sorella, vado a morir per la mia patria bella».
Fu proprio attraverso imprese come quelle dei fratelli Bandiera e di Pisacane che i mazziniani giunsero presto a monopolizzare, nell'immaginario risorgimentale, ciò che aveva a che fare con la sconfitta eroica, il sacrificio, la morte. Non tutti condividevano, anche entro lo schieramento democratico, la disponibilità mazziniana all'azione quasi ad ogni costo. Carlo Cattaneo, ad esempio, criticava aspramente la strategia mazziniana del Partito d'azione, che riteneva consistesse in una «dottrina del martirio» fondata sulla «ostinazione di sacrificare li uomini coraggiosi a progetti intempestivi e assurdi». Il progressivo avvicinamento alla monarchia di tanti democratici, realizzatosi attraverso la Società nazionale, partiva proprio da una analoga critica delle imprese mazziniane e del fatto che esse sacrificavano inutilmente delle giovani vite. Ma nel frattempo i molti episodi di mobilitazione popolare armata del 1848-1849 – a Milano, Roma, Venezia e in tanti altri luoghi – avevano mostrato come l'etica del sacrificio e la pratica del martirio fossero diventate elementi ineliminabili della lotta per l'indipendenza. Questo si sarebbe dimostrato vero almeno fino alla conclusione di quella lotta, nel 1860, con l'impresa dei Mille. L'ultima lettera di Ciro Menotti Ciro Menotti, giustiziato a Modena nel 1831 per aver tentato di organizzare una insurrezione contro il duca Francesco IV, scrisse alla moglie questa lettera il mattino del giorno stesso in cui venne impiccato. In questo caso, come in molti altri, il condannato trovava conforto nella propria fede religiosa. Lettere di patrioti italiani del Risorgimento, a cura di G. Amoroso, Bologna, Cappelli, 1960, pp. 36-38.
Uno dei più noti perseguitati politici del Regno delle Due Sicilie fu il letterato Luigi Settembrini, autore tra l'altro nel 1847 di una Protesta del popolo delle due Sicilie rimasta anonima. La lettera che qui pubblichiamo fu scritta quando Settembrini temeva d'essere condannato a morte. Così sarebbe in effetti avvenuto; ma la pena sarebbe stata commutata nell'ergastolo, finché lo stesso Settembrini – imbarcato in una nave per essere deportato in America – riuscì avventurosamente a fuggire. Lettere di patrioti italiani del Risorgimento, a cura di G. Amoroso, Bologna, Cappelli, 1960, pp. 117-119.
Il «martirio» dei fratelli Bandiera nella parole di Mazzini Mazzini contribuì alla costruzione del mito dei fratelli Bandiera già con un testo scritto nel 1844. Le pagine qui riprodotte mostrano anche l'importanza che attribuiva al martirio di chi, consapevolmente, si sacrificava per la propria patria. Letture del Risorgimento italiano scelte e ordinate da Giosue Carducci, Bologna, Zanichelli, 1920, pp. 241-245. Galleria immagini
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