Dalla prima guerra mondiale al secondo dopoguerra (1915-1950)
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1880 - 1961
Le donne di Mussolini (non le decine o centinaia oggetto di fugaci appetiti erotici e di effimere frequentazioni mondane, ma quelle che hanno realmente contato qualcosa nella sua esistenza di uomo sessualmente bulimico, sentimentalmente distratto, culturalmente vorace e politicamente ingeneroso), hanno tutte assolto, a ben vedere, una funzione archetipica, come tale essenziale per comprenderne la complessa parabola umana e politica. Donna Rachele, ad esempio, con i suoi modi solo apparentemente bonari e contadini, con la pazienza rassegnata e complice di un personaggio degno della miglior tragedia greca, ha giocato, agli occhi di un'intera nazione rimasta nel suo fondo tradizionale e conformista a dispetto di futurismi meccanici e superomismi dannunziani, il ruolo esemplare di madre e moglie: ha dunque rappresentato l'ancoraggio ai valori e alle certezze della vita quotidiana per un uomo invece costituzionalmente votato all'irrequietezza, privo di punti fermi, incapace di solidi rapporti affettivi, emotivamente instabile. Edda, la figlia devota e ribelle, ha duplicato, nella cornice mondana e rutilante di un'Italia incamminatasi a tappe forzate sulla strada della modernità e della potenza, il rifiuto delle convenzioni borghesi, l'immediatezza di carattere, gli slanci ed i colpi di testa, le insoddisfazioni esistenziali, il gusto della trasgressione, di chi, giunto al potere assoluto, aveva comunque mantenuto un fondo anarchico, un'intima insofferenza per i formalismi e l'etichetta, un animo popolare e grossier. La rivoluzionaria ucraina Angelica Balabanoff è stata, con le sue predicazioni e lezioni, la maestra di vita politica, colei che, per bocca dello stesso Mussolini, di un rivoluzionario della domenica, appassionato ma confusionario, aveva fatto un politico di professione, un pragmatico non insensibile alle idee ed alle credenze. L'anarchica ed eccentrica Leda Rafanelli, sebbene per una breve stagione, nei tempi difficili della scelta interventista, ha costituito, per Mussolini, una sorta di prezioso rifugio sentimentale e politico, un'evasione all'insegna dell'esotismo, della coerenza a quei sentimenti anticlericali, libertari e nicciani ormai sempre più inconciliabili con la sua scelta per la politica attiva e che tuttavia sarebbero rimasti sempre al fondo dei suoi pensieri, come una sorta di ancoraggio sentimentale, ineffettuale ma rasserenante. Claretta Petacci, l'amante per eccellenza, ha invece incarnato la passione e la fedeltà estreme, la disponibile procacità delle donne italiane tanto desiderata ed ammirata dal maschilismo fascista, la giovinezza conturbante di chi si concede, senza imbarazzi, per dovere nazionale, al più maschio dei maschi al solo fine di compensarne il talento, la probità e il quotidiano impegno di statista, Margherita Sarfatti, infine, tra tutte la più importante delle donne di Mussolini, è stata qualcosa a metà strada tra la musa e il demiurgo, colei che per circa un ventennio lo ha guidato (con indubbia intelligenza e non senza calcolo) nel labirinto della modernità culturale: fornendo al fascismo ed al suo capo, entrambi nati, politicamente, tra la piazza e le trincee, un disegno di politica artistico-culturale coerente ed ambizioso, all'altezza della sfida storica da essi rappresentata; inoculando nel Mussolini divenuto ormai duce, passioni, come quella per la romanità, che alla lunga si sarebbero rivelate politicamente assai pericolose; suggerendogli la chiave per fare del suo movimento-regime una realtà non solo politica, ma una vera e propria rivoluzione culturale ed un'alternativa di civiltà; alimentandone, con la biografia Dux (apparsa nel 1926: diciassette edizioni in Italia e traduzioni in diciotto lingue), la retorica agiografica, il mito pubblico ed il culto devozionale; adottando, attraverso salotti letterari, mostre, cenacoli e riviste, strategie di conquista e seduzione del potere intellettuale di una assoluta efficacia (artisti e letterati organici al potere: una delle tante eredità che il fascismo ha lasciato alla repubblica). Ma non è storicamente ingeneroso fare della Sarfatti, secondo un cliché molto abusato, solo una delle donne del duce? La sua storia intellettuale presenta in effetti un “prima” e un “dopo” Mussolini, comunque ricco di avvenimenti, personaggi, idee e passioni. Giovane ebrea conquistata alla causa del socialismo, la Sarfatti (nata a Venezia l'8 aprile 1880 da una ricca famiglia patrizia, quella dei Grassini), comincia ad esercitare la critica d'arte poco più che ventenne. Sposata nel 1898 con Cesare Sarfatti, avvocato, nel 1902 si trasferisce col marito a Milano, dove frequenta Turati e la Kuliscioff e dove stringe amicizia con Ersilia Majno, all'epoca presidente della Lega femminista milanese. Qui, forte di una solidissima posizione economica che contrasta non poco con la sua adesione alla causa dei lavoratori, comincia dapprima ad animare un vivace salotto politico-artistico-letterario, e successivamente a scrivere con regolarità, di arte ma anche ben presto di politica, su fogli e giornali d'area soprattutto socialista. Quando, nel dicembre 1912, incontra per la prima volta Mussolini, nel frattempo divenuto direttore dell'Avanti!, è dunque già ben inserita nel dibattito politico-culturale. Del pari, anche dopo la rottura col suo amante-allievo (databile al 1931) ed il suo obbligato allontanamento dall'Italia (nel novembre 1938 a causa delle leggi razziali), la Sarfatti mantiene comunque un suo profilo intellettuale, seppure declinante e per molti versi volutamente basso. Durante il suo esilio in Sud America scrive dunque sui giornali (tra l'altro, nel 1945, sulla Critica di Buenos Aires, un reticente Mussolini: comò lo conocì) e pubblica libri. E anche dopo il suo ritorno in Italia, nel luglio 1947, coltiva ancora letture ed amicizie (poche e selezionate, giacché molti dei suoi antichi protetti e sodali le voltano poco elegantemente le spalle), dà alle stampe articoli e volumi (tra i quali, nel 1955, un'autobiografia, Acqua passata, nella quale la parola fascismo ricorre una sola volta e Mussolini è del tutto assente, a dimostrazione di come nella mente di questa intellettuale cosmopolita e raffinata quella accanto al duce potesse davvero essere considerata, in sede di bilancio finale, una parentesi o poco più, un episodio tra gli altri della sua ricca esistenza mondana). In realtà, senza fascismo e senza Mussolini la Sarfatti non sarebbe assurta, come invece le è capitato, a simbolo non secondario di un secolo pazzo e contraddittorio, non privo di una sua tragica grandezza, durante il quale l'ideale di un'arte non al servizio del potere, ma capace di esprimerne l'essenza spirituale, la natura profondamente innovativa e le ambizioni palingenetiche, ha trovato il modo di concretizzarsi attraverso l'esperienza dei totalitarismi e, nel caso di quel lo italiano, nel modo senz'altro più originale e creativo. Cosa sarebbe stata l'esperienza del gruppo del Novecento (personalità come Sironi, Funi, Casorati, Wildt) se la Sarfatti non si fosse messa in testa di farne l'espressione di punta di una rivoluzione al tempo stesso estetica e politica, caratterizzata, esattamente come il fascismo (anch'esso, nelle intenzioni, una rivoluzione al tempo stesso estetica e politica), dalla sintesi tra valori tradizionali e spirito d'avanguardia, tra classicità e modernismo? Cosa sarebbe stata la sua idea di un rinnovamento della tradizione artistica italiana nel segno della modernità post-futurista se essa non avesse incontrato l'ambizione mussoliniana di un rinnovamento della cultura politica italiana nel segno di quella che è stata definita la “modernità totalitaria”? Questa confluenza d'intenti e di aspirazioni spiega il rango ufficiale riconosciuto a partire dal ‘22 alla Sarfatti: collaboratrice assidua del Popolo d'Italia, direttore dell'influente Gerarchia, ispiratrice di mostre ed eventi culturali (in Italia ed all'estero), tramite, per conto del regime, con la stampa estera (in particolare quella statunitense) e con gli ambienti più accreditati della cultura internazionale. Un ruolo, quello della Sarfatti nel settore artistico, ricoperto attivamente e quasi monopolisticamente sino almeno al 1930-1931, con una singolare somiglianza, cronologica e di funzioni, con il ruolo assolto, sul versante filosofico, da Giovanni Gentile. Dopo essere stati egemoni nei rispettivi campi, entrambe le loro stelle cominceranno a declinare a partire dai primi anni Trenta, in coincidenza con i nuovi orientamenti mussoliniani, con il mutato clima politico e con il diverso assetto del regime, incamminatosi lungo la strada della militarizzazione della vita civile e dell'irrigidimento totalitario. Dopo un progressivo oblio, reso ancora più acuto dall'ostilità alle sue idee, ottusa e di antica data, mostrata da alcuni gerarchi, Farinacci su tutti, sarà il varo della legislazione antisemita a costringere la Sarfatti (che nel frattempo s'era comunque convertita al cattolicesimo) al passo estremo dell'esilio ed alla conclusione della sua avventura politico-culturale al fianco del fascismo. Non c'è grandezza senza risvolti che ai posteri appaiono inevitabilmente meschini. Negli ultimi anni della sua vita (sarebbe morta, pressoché dimenticata, il 30 ottobre 1961) la Sarfatti si impegnò – un po' per spirito di vendetta, un po' perché oppressa dal fantasma della ristrettezza economica, un po' a causa di una certa avidità e di uno spirito affaristico che tanto, all'epoca, avevano infastidito il duce – in una estenuante trattativa per la vendita al miglior offerente della sua corrispondenza con Mussolini. Dopo vari maneggi e annunci sulla stampa, dell'affare non si fece comunque nulla: quelle lettere rimasero inedite. Segno, forse solo involontario e casuale, di un legame, quello tra il dittatore e la sua musa-demiurgo, rimasto segretamente vincolante e quindi tutt'altro che effimero o occasionale, legame che agli occhi degli storici odierni continua ad apparire indicativo di una stagione della storia politico-culturale italiana tra le più drammatiche e, nella sua drammaticità, tra le più esaltanti e controverse. Alessandro Campi |