Dagli anni Cinquanta ad oggi (1951-2011)
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1927
Alla femminilità, quanto meno ai suoi canoni estetici più usuali, Gae Aulenti non ha mai concesso molto. I capelli tagliati corti, l'abito severo, i colori sobri, sembrano respingere ogni scorciatoia decorativa. Difficile capire se questo rigore sia un lascito del linguaggio progettuale degli inizi, o solo il frutto di un'educazione austera: in una delle rarissime interviste in cui parla di sé, confessa un padre “esigente e severo” che mal tollerava trucchi e frivolezze, ed era capace di prendere a schiaffi la figlia adolescente per un'ombra di rimmel verde sugli occhi. «Avrebbe voluto che fossi un ragazzo», è la conclusione. Nella famiglia, di origini calabresi, era sottoposta a regole precise anche l'espansività: «Il bacio della sera, l'abbraccio del mattino. Ma niente di spontaneo, di improvvisato. La spontaneità era repressa a casa nostra». Nata nel ‘27 a Palazzolo della Stella, in provincia di Udine, Gae esce di casa presto, dimostrando una precoce volontà di autonomia. Dichiara di voler frequentare il liceo artistico a Firenze, ma resta in Toscana solo un anno. Si iscriverà, invece, al Politecnico di Milano. Sono gli anni ‘50; la Aulenti fa in tempo a frequentare la generazione di Franco Albini, Giò Ponti, Ignazio Gardella, quella che ha saputo dare all'architettura italiana una dignità e qualità europea, a un livello forse mai più raggiunto, se non in sporadici casi individuali. La città lombarda è una fucina, e Gae ne apprezza appieno le potenzialità: «Diciamo che Milano la sento come mia, è la città dove ho studiato. Io che venivo dal Veneto, e mi considero apolide, avevo l'impressione che qui succedesse di tutto, tanta cultura, tanti incontri possibili». Laureata nel ‘54, per qualche anno resta nell'università, prima collaborando con Giuseppe Samonà, a Venezia, poi con Ernesto Rogers, a Milano, ma l'esperienza accademica si conclude verso la fine degli anni Sessanta. Questa interruzione provoca probabilmente due conseguenze. La prima, che la Aulenti non ha prodotto una scuola, una linea di continuità; la seconda, che si è distaccata dal gruppo a cui, sia per motivi generazionali e ambientali che per predisposizione culturale, era omogenea, cioè quello degli Aldo Rossi, Vittorio Gregotti, Carlo Aymonino. Di quel gruppo ha condiviso solo inizialmente le rigidità ideologiche ed espressive, restando fortunatamente estranea alle derive morfo-tipologiche che hanno contribuito in larga misura a ingessare la ricerca architettonica italiana nell'ultima parte del Novecento. Ciò che ha differenziato Gae Aulenti dai colleghi con cui ha vissuto il clima intellettuale della Milano degli anni Settanta (ha fatto parte, tra l'altro, della redazione della Casabella di Rogers) è stato un approccio alla disciplina fortemente, forse completamente, mediato dalla professione. Nella professione, esercitata con ferma vocazione internazionale (dall'estero le verranno i maggiori riconoscimenti, come la Legion d'Honneur conferitale da Mitterand nell'87), i rigori man mano si stempera no, i progetti acquistano flessibilità, ricchezza di soluzioni articolate e diversificate; affiora sempre più evidente quel particolare segno eclettico che ne contraddistingue lo stile compositivo. L'ha aiutata senz'altro il fatto di non aver mai perso i contatti con la sua attività di designer (è autrice di alcuni pezzi evergreen, come il tavolo in cristallo con ruote di Fontana Arte) sperimentando materiali e indagando con insistenza le possibilità espressive della luce. L'abitudine a considerare quella del design come un'esperienza formativa, e non collaterale, per l'architetto, si legge anche nella cura, mai approssimativa o distratta, del dettaglio esecutivo. Le architetture di Gae Aulenti sono disegnate per essere costruite; grazie all'attenzione per l'aspetto realizzativo e tecnologico (vedi per esempio l'uso sempre adeguato dei materiali, l'impiego delle strutture metalliche) schivano la trappola del formalismo neoaccademico, la prevalenza dell'immagine, tipica di buona parte della cultura architettonica contemporanea. Come scenografa, ha lavorato più che mai da architetto. Con Luca Ronconi ha messo in scena Euripide, Ibsen, Hofmannsthal, Pasolini, e numerose opere liriche; per il Rossini Opera Festival ha anche firmato la regia della Donna del Lago. Le sue scenografie sono vere visioni architettoniche più che semplici installazioni, e appare evidente come la riflessione specifica sui nessi tra spazio scenico e testo venga ricollocata all'interno di quella più generale su costruzione e significato. Ma Gae Aulenti ha espresso al meglio il suo talento nella costante attività di ricerca sugli spazi espositivi, dagli allestimenti (moltissimi), alla progettazione di musei, come il Museo d'Arte Catalana di Barcellona, il New Asian Art Museum di San Francisco, oltre ai più noti (ma forse meno innovativi) progetti per il Museo d'Orsay di Parigi e Palazzo Grassi a Venezia. Nei primi due le espansioni sono connesse alle parti preesistenti da strutture leggere, aeree, che introducono la luce come elemento di mediazione tra vecchio e nuovo. La biografia personale della Aulenti (si sa di un breve matrimonio con un collega e di un lungo sodalizio con Carlo Ripa di Meana) appare ininfluente, messa in ombra dalla sua figura professionale. Attraverso l'eccezionale impegno speso nella costruzione della sua carriera di progettista, nel mare aperto della competizione e del dibattito internazionale (un caso isolato tra le donne architetto della sua generazione, che hanno in genere scelto il più rassicurante approdo del mondo accademico), la Aulenti ha maturato una capacità quasi mimetica di interpretare temi e luoghi cosmopoliti, in cui si esprime l'eclettismo a cui abbiamo accennato. «Uno dei complimenti più belli che si possa fare ad una architettura – ha affermato – è dire che sembra sia sempre esistita in quel contesto». Luigi Cavallari |