Dagli anni Cinquanta ad oggi (1951-2011)
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1918 - 2000
Ci sono esseri come Pietro Micca o Enrico Toti, Jacques-Etienne Cambronne o Jacques de la Palisse, cui tocca in sorte di venir ricordati per un atto, una parola che vale l'intera vita. Per Carla Capponi, le 15, 52 del 23 marzo 1944. Ora, giorno e anno dell'attentato di via Rasella. Era nata a Roma il 7 dicembre del 1918 da Giuseppe e da Maria Tamburo, cattolici praticanti che nutrivano idee conservatrici pur senza militare, nel ventennio fascista, apertamente per il regime. Trascorse una infanzia da bambina borghese, nella casa di piazza Foro di Traiano, stretta fra le vestigia imperiali e l'antica Suburra. Ginnasio e liceo al Visconti, una delle scuole più rinomate della capitale, corsi di giurisprudenza all'Università “La Sapienza”. Un bel volto incorniciato da folti capelli neri, lo sguardo vivacissimo, il carattere deciso, prima di “Elena”, che fu il suo nome di battaglia, Carla Capponi era chiamata, per il fisico slanciato ed una certa naturale eleganza, l'“inglesina”. Negli ultimi anni del liceo aveva conosciuto Rosario Bentivegna, militante del Partito comunista e già attivo nei Gap, Gruppi di azione patriottica. Lo sposerà nel ‘43, con rito religioso, dandogli una figlia, Elena. Sarà lui a trasmetterle la passione politica che dopo l'8 settembre prenderà forma nella lotta armata. Nonostante la motivazione della medaglia d'oro al valor militare della quale venne insignita recitasse: «Per aver partecipato alle più eroiche imprese nella caccia senza quartiere che il suo gruppo di avanguardia dava al nemico annidato nella cerchia abitata della città di Roma», non si conoscono rilevanti gesta partigiane di Carla Capponi prima del 23 marzo del 1944. E, come vedremo, neanche dopo. A meno di non considerare tali il soccorso che portò a un carrista, ferito al ginocchio durante i combattimenti a Porta San Paolo, tra l'8 e il 10 settembre del ‘43. O il furto di una rivoltella, una Beretta calibro 9, ai danni di un agente della Guardia nazionale repubblicana. Avrebbe raccontato poi che in quel modo volle procurarsi l'arma che i gappisti le negavano in quanto, a giudizio loro, le donne dovevano limitarsi a operazioni di copertura, fingendo di essere fidanzate o sorelle dei compagni in azione. Niente al confronto dell'azione alla quale avrebbe partecipato di lì a sette mesi. L'attentato di via Rasella fu deciso ed attuato da appartenenti a formazioni dei Gap, Gruppi di azione patriottica, a quel tempo comandati da Carlo Salinari. Il piano era di far esplodere una certa quantità di tritolo e quattro rudimentali bombe a mano al passaggio per via Rasella dell'11° compagnia del terzo battaglione del Polizei Regiment Bozen, formato da altoatesini. Della squadra faceva parte anche Carla Capponi la quale collaborò alla fase preparatoria compiendo sopralluoghi e controllando che la consuetudine della Bozen di risalire verso piazza Barberini imboccando non via del Tritone, ma la parallela via Rasella fosse rispettata. La notte precedente all'attentato la trascorse in un “covo” di via Marco Aurelio, poco distante dall'Ospedale militare del Celio. Il giorno seguente, in compagnia di Rosario Bentivegna, Pasquale Balsamo e Franco Calamandrei, che costituivano il gruppo di azione, andò a mangiare alla Birreria Dreher di Piazza Santi Apostoli. Quindi si mise all'opera. Assieme a Balsamo e a Calamandrei, Carla Capponi non aveva mansioni operative, ma di appoggio a Bentivegna, colui che avrebbe dovuto provocare l'esplosione. In pratica, il suo compito si limitava ad attendere all'imbocco della parte bassa di via Rasella con un impermeabile sul braccio. Dopo lo scoppio, doveva consegnarlo a Bentivegna il quale, infilandoselo, avrebbe nascosto alla vista la divisa di netturbino che indossava per l'occasione. Il tritolo necessario all'attentato, 18 chilogrammi, era infatti stato posto in un carrettino della nettezza urbana. Una mansione, si dirà in seguito e non ci sono motivi per dubitarne, che richiedeva buone dosi di ardimento, anche se per sua fortuna le circostanze non le imposero di darne soverchia prova (mentre aspettava davanti alla sede del Messaggero venne fermata da due vigili. Si giustificò sostenendo che aveva un appuntamento col fidanzato e loro replicarono: «Faccia quello che vuole, basta che stia un po' più lontana dal portone». E la cosa finì lì). Ma la tensione, quella non doveva mancare e ciò nonostante Carla Capponi fece il suo dovere fino in fondo: subito dopo l'esplosione – che uccise 32 soldati e due civili, il quattordicenne Pietro Zuccheretti e Antonio Chiaretti – raggiunse Bentivegna, gli diede il trench e insieme scesero per via delle Quattro Fontane, dileguandosi. Dopo il successo di quell'attentato Carla Capponi avrebbe voluto partecipare ad altre imprese, ma tutto congiurò a che la sua azione e il suo nome restassero legate a via Rasella. L'ordine che Togliatti impartì ai Gap di non intralciare il passaggio degli angloamericani con inutili combattimenti contro i tedeschi, tarpò infatti le ali alla lotta armata e alla partigiana “Elena” non restò che prender parte all'occupazione de Il lavoro fascista dalle cui tipografie uscirà, il 4 giugno, la prima copia dell'Unità libera e i primi manifesti di saluto agli Alleati. Alla Liberazione Carla Capponi aveva ventisei anni e sembrava li avesse spesi tutti in quel 23 marzo 1943. Riconosciuta combattente con il grado di capitano e decorata, come abbiamo visto, di Medaglia d'Oro al Valore Militare, fu più volte eletta nelle liste del PCI, senza tuttavia lasciar particolari tracce del suo impegno parlamentare. D'altronde il partito non le chiedeva altro che essere ciò che era, “quella di via Rasella”, espressione pronunciata con rispetto, ma anche con tono perplesso e, talvolta, di biasimo. Carla Capponi ha sempre ammesso di aver saputo solo dopo dell'eccidio delle Fosse Ardeatine e le cose andarono sicuramente così. Che i tedeschi reagissero agli attentati con la rappresaglia era cosa nota, per altro ricordata nei bandi che tappezzavano le città. Tuttavia il giorno seguente alla strage non un giornale o un manifesto diedero notizia della ritorsione tedesca. Ma anche così, anche se ignara delle immediate conseguenze del suo gesto, Carla Capponi dovette farvi i conti. Dapprima con il movimento partigiano, parte del quale espresse molti dubbi sui vantaggi militari e politici dell'attentato. Quindi con l'opinione pubblica o, quanto meno, con quella che le chiedeva se il colpo inferto al reparto della Bozen valesse la vita dei 335 delle Fosse Ardeatine. Perplessità avanzate non solo e com'era da attendersi dagli ambienti di destra, ma perfino da quelli della sinistra, del PCI medesimo. L'attentato di via Rasella, insomma, non fu mai canonificato, mai elevato a dogma dell'epopea resistenziale e questa menomazione finì per amareggiare il resto degli anni di colei che ne era stata l'eroina. Ricorrente come una febbre terzana la domanda: “Valse la pena?” scandì l'esistenza di Carla Capponi, sopravvivendole se ancora poco tempo fa l'Unità è tornata sull'argomento sostenendo che l'attacco «fu dettato da emotività più che da un preciso ragionamento, discutibile sul piano dell'opportunità e sbagliato se messo in relazione con le finalità che si volevano raggiungere». Carla Capponi era una donna forte, coraggiosa e combattiva, ma non se la sentì di dover periodicamente giustificarsi. Lei era “quella di via Rasella”, non intendeva diventarne anche l'avvocato d'ufficio. Separatasi da Rosario Bentivegna, finì per appartarsi a Zagarolo, nella campagna romana, rinunciando, salvo la carica di membro del Comitato di presidenza dell'Anpi, l'associazione nazionale dei partigiani, agli incarichi pubblici. In pratica, si tirò in disparte, lasciando che parlasse di sé il gesto che l'aveva resa nota. Morì il 24 novembre del 2000, poco aver terminato Con cuore di donna, il suo testamento spirituale. Non è un buon libro, ma Carla Capponi non pretendeva realizzare un'opera letteraria. Voleva solo custodire la memoria della sua avventura terrena, ovvero di quel 23 marzo 1944. E rispondere, finalmente, alla domanda che per cinquantasei lunghi anni s'era sentita ripetere: ne valse la pena? Perché non vi siete consegnati per salvare la vita ai 335 delle Fosse Ardeatine? «Se avessimo saputo prima che ci sarebbe stata la rappresaglia noi avremmo agito lo stesso perché la Resistenza non può prescindere dall'esistere senza pensare che il nemico si avvarrà di tutti gli strumenti che ha per le ritorsioni. Il nemico va combattuto comunque». E quindi: «Quale reparto di un esercito combattente consegnarci al nemico sarebbe stato un tradimento». Fedele fino in fondo a se stessa. Disconoscendo l'opportunità del suo gesto avrebbe sconfessato, perché in quel gesto è, riassunta, l'intera sua vita. Paolo Granzotto |