Dagli anni Cinquanta ad oggi (1951-2011)
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1938 - 1976
Ketty La Rocca, deceduta a soli 38 anni nel 1976, è stata a giusto titolo l'emblema italiano di un'arte declinata al femminile (intendiamo sottratta sia al genere “femminile” delle arti minori nel quale la cultura maschile a lungo ha accantonato la donna, sia alla nuova e rivendicativa iconografia “femminista”, e altrettanto alla tentazione dell'emancipazione mimetica su modello maschile). Ketty è stata anche, purtroppo, l'emblematica vittima della strage che il cancro seminò tra le giovani donne in quegli anni. Aveva iniziato nel 1964 con dei collage, in consonanza con un'avanguardia letteraria, la Poesia visiva. Il calligramma e altre figure del linguaggio scritto sono stati per lei fonte di figurazione inedita, leggera quanto intensa, legata alla carta e all'inchiostro, all'impronta e alla filigrana. Negli anni Settanta, l'artista partecipò a diverse mostre e fu accolta non solo in ambito femminista. Anni fa ho chiamato «capacità negativa» (l'espressione è del poeta Keats) la posizione dell'artista donna la cui alterità, assunta consapevolmente, evita i meccanismi dominanti della scena artistica (tecniche e stili), per esprimere se stessa più libera mente negli interstizi o vuoti lasciati tra quei sistemi, e nei nuovi filoni sperimentali ancora poco codificati. Intendevo generi nascenti come la Body art oppure certe sperimentazioni sul linguaggio e la calligrafia, sull'immagine video e la fotografia. Un'artista innovativa donna aveva una chance in più? Poteva lei, più di lui, l'uomo trasgressivo, essere vicina a certe fonti sommerse? Addirittura attingere a un inconscio di tipo androgino? All'epoca, molto fu sperimentato nel campo letterario, sfruttando la semiotica e l'azzeramento delle retoriche. Il femminismo deve molto a Roland Barthes. Proprio ai margini della scrittura semiotica, della “camera chiara” e della Body art, si collocò la breve, troppo breve, esperienza artistica di Ketty La Rocca. Nel 72, nel video muto intitolato Appendice per una supplica, faceva parlare le mani, al posto della voce, al posto dello scritto. In Libro a mano, i fogli offrono, ricalcato sommariamente, il profilo della mano, in bianco e nero come nelle “pagine” del video. Alla pratica esclusiva della carta (mai tela o pittura) La Rocca associa a parti re dal ‘73 la calligrafia e la fotografia. Ad esempio, in Le mie parole e tu?, scrive a china sopra fotografie delle sue mani, anticipando in qualche modo l'attuale lavoro dell'iraniana Shrin Neshat. Sono particolarmente intensi e complessi i trittici dedicati a certe icone classiche o contemporanee, per non dire Pop (che attraevano allora anche Andy Warhol), Fidel Castro e Marilyn Monroe quanto la Pietà di Michelangelo o una finestra del Palazzo Ricciardi a Firenze: ogni immagine viene trattata in trittico (fotografia, ripresa della sagoma tramite calligrafia, disegno come impronta). Si tratta di un sottile gioco di fuga a partire dall'immagine realistica citata e subito negata, cioè sostituita con un tratteggio quasi immateriale, appena un'impronta, e successivamente con un disegno calligrafico degno di Apollinaire. Il tutto è su carta standard, formato A4. Ketty La Rocca è stata davvero un'artista d'avanguardia. Oggi si può anche leggere la sua opera in chiave di Arte concettuale, ma si tratta di una “strada” concettuale tutta sua, audace e sofferta, che si misurava con le innovazioni in corso e, senza polemiche, con i protagonisti maschili. Mi riferisco in particolare, tra le immagini famose che lei cita e rielabora, a quella di Piero Manzoni mentre firma il corpo nudo di una modella, come ready-made nella linea di Marcel Duchamp: non si tratta per Ketty di denuncia ideologica, semmai di sottolineatura di una tradizione atavica che persino l'avanguardia assume anche se ironicamente (e che lei, l'artista donna, riprende con ironia, ma al secondo grado). Nei mesi di malattia, Ketty La Rocca si sarà sentita sostenuta affettivamente dal femminismo italiano ma anche, forse, un po' presa in ostaggio dagli Woman studies nascenti. Era stata consenziente e collaborativa, ma se fosse vissuta oltre quegli anni, avrebbe probabilmente fatto in tempo a scuotere il peso di quell'ipoteca, che in certe occasioni è stata riduttiva. Oggi l'archivio della sua opera è curato da suo figlio, Michelangelo Vasta, a Firenze. Un suo lavoro era presente alla Biennale di Venezia nel ‘78 e il Palazzo delle Esposizioni di Roma le ha dedicato un omaggio nel 2001. Anne Marie Boetti Sauzeau |