Dagli anni Cinquanta ad oggi (1951-2011)
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1896 - 1974
La storia di Gianna Manzini bisogna raccontarla cominciando da uno specchio. È uno specchio grande, legato un po' di sbieco su un carretto spinto a mano. Traballando riflette le nuvole e la strada. Il mondo si rovescia e si spezza, si combina in nuovi equilibri: trova una luce sconosciuta. Per la bambina Gianna è l'incontro con la poesia. Accaduta o inventata, la storia parla di lei adulta, dice la verità sul suo lavoro. «Raccogliermi l'anima e tenerla in fronte come la lampada dei minatori: nient'altro che una particolare attenzione, in virtù della quale le cose escono da un'ombra che le preserva, un'ombra fermentante, faticosa, bruta, l'ombra dell'attimo che precede una nascita, per entrare in un cerchio di chiarità». Delle cose la scrittrice Manzini cattura un'immagine frantumata e distorta, bislacca quanto il riflesso dello specchio. Però, come lo specchio, alle cose aggiunge un luccichio sepolto, dietro l'apparenza sorprende la realtà. Inseguire i bagliori intermittenti della vita implica la necessità di sovvertire un ordine fittizio. La ricerca espressiva è ardimentosa. I libri procedono per approssimazioni o per ipotesi, sospensioni e dilatazioni dell'intreccio; sperimentano la costruzione del racconto secondo angolature e piani diversi, il continuo spostamento del fuoco narrativo; ammettono un ritmo che è singhiozzante e affannoso. «Certamente la Manzini», ha scritto Giacomo Debenedetti, «è riuscita e riesce a pronunciare parole che, fino all'attimo precedente, avevamo creduto impronunciabili. [...] In tal modo [...] ci può descrivere un visibile che anche noi dovremmo vedere, ma da soli non vedremmo mai». Torsione sintattica, preziosismo lessicale, sovrabbondanza metaforica: lo stile diventa spesso acrobazia. «Complicata e un po' abbagliante», come avvertiva già dall'esordio Emilio Cecchi, la tecnica della Manzini offusca espressionismo psicologico e sensualità surrealista: vela il significato di un'esperienza innovativa nella tradizione italiana, vicina per obiettivi e scelte alla lezione dei grandi maestri europei. E facile per molti accusarla di virtuosismo barocco e di lambiccata astrusità. Lo splendore formale consegna la sua prosa a un gusto polveroso, la chiude in un tempo già finito. Sarà un poeta di trent'anni, lei ne ha già quasi sessanta, a riportarla dentro la «zona di una poesia calda», malgrado « l'ibrido sottofondo di capriccio e di tenue gelo intellettuale». In epoca di collisione incandescente tra letteratura e realtà, il giovane Pier Paolo Pasolini la disincaglia dalle secche insidiose della prosa d'arte, la sottrae al lirismo estetizzante, provinciale, dell'entre deux guerres. Gianna Manzini è assolta da ogni accusa di artificio, i suoi libri sono ancora compromessi con la vita. In quel 1953 per lei qualcosa sta cambiando. Dopo la stesura tormentosa e lunga di Lettera all'Editore, che segna nel 1945 l'approdo più alto della sua sperimentazione narrativa, prepara un nuovo romanzo. Con La Sparviera vince il Viareggio del 1956. Lo stile si semplifica e abolisce scaltrezze tecniche, cadenze di maniera: diventa più lucida l'intelligenza visionaria che aggredisce i segreti delle cose. Nella vicenda l'autrice libera senza intrusioni memoriali, così compiaciute nei racconti degli anni Quaranta, la storia della malattia polmonare che aveva contratto da bambina e che la perseguiterà fino alla morte. Gli spettri dell'infanzia tornano nell'ultimo romanzo e nell'ultimo volume di racconti. Ritratto in piedi, che alla Manzini porta con il Campiello una tardiva notorietà, esce nel 1971. Sulla soglia è del 1973. Discese oniriche nei labirinti dell'autobiografia, i due libri raddoppiano la fiaba dolorosa del padre anarchico e della bella madre borghese. Ripetono il lutto di una separazione che per la figlia ancora piccola è lo scontro di scelte diverse, inconciliabili. La prosa raggiunge un miracoloso equilibrio tra la capacità rabdomantica di addentrarsi negli antri bui della coscienza e una loro aderente, ormai spoglia resa formale. «Quello che mi propongo di scrivere deve avere una scioltezza tutta nuova. Frasi che arrivino come un sorriso o uno sguardo, o un pugno, magari [...]. Che arrivino, che tocchino, che penetrino. [...] Niente bel tessuto uniforme. Niente confezione». Il frammentismo prezioso della Voce, l'asfittico memorialismo della formazione fiorentina non potrebbero sembrare più distanti. A Firenze la Manzini arriva con la madre per completare gli studi. È l'autunno 1914, lei era nata a Pistoia il 24 marzo 1896. Mentre prepara la tesi di laurea conosce Bruno Fallaci, responsabile della terza pagina della Nazione: lo sposa nei giorni di Natale del 1920. Sull'edizione serale del quotidiano in estate aveva pubblicato un racconto, il primo di una lunga serie in cui gradualmente si chiariscono qualità e ragioni della sua prosa. Esce nel 1928 il libro d'esordio, Tempo innamorato: accolto come una ventata di novità nel panorama letterario dell'epoca, è recensito subito da Cecchi, merita l'attenzione di André Gide e Valéry Larbaud. Il giovane Montale scrive che l'autrice debuttante «ha fatto già molto e molto ancora può fare per il romanzo italiano». Due anni più tardi sarà l'unica donna scelta da Enrico Falqui e da Elio Vittorini per l'antologia Scrittori nuovi. Frequenta gli intellettuali delle Giubbe Rosse, collabora a Solaria, Campo di Marte, Letteratura: però con il successo, e l'apertura verso la narrativa europea, arriva anche una crisi. Confinato sull'Appennino pistoiese, il padre è morto per un'aggressione fascista; lei si separa dal marito. Finisce il tempo della giovinezza e di Firenze. Nel 1934 si lega a Falqui e si trasferisce a Roma. Se la città è ostile, la relazione tempestosa, ha comunque trovato un equilibrio sentimentale e il luogo dove mettere radici: a Roma, nella casa che abita con Falqui, morirà pochi mesi dopo di lui il 31 agosto 1974. Insieme a Falqui inventa nell'immediato dopoguerra l'avventura breve ma ricca di Prosa. La rivista, che svolge un ruolo di primo piano nello spinoso dibattito sulla narrativa e sulle sue sorti, ospita scritti di Virginia Woolf e di Edward Morgan Forster, di Thomas Mann, Jean Paul Sartre, Paul Valéry. Comincia a Roma anche la più frivola e lunga attività di Gianna Manzini cronista di moda: prima sul Giornale d'Italia, poi su Oggi e più tardi sulla Fiera Letteraria, tiene una rubrica fissa che firma con gli pseudonimi di Pamela e Vanessa. Gli articoli sono scanzonati, estrosi; il vincolo diventa una strana forma di vacanza. È la sola distrazione concessa a un impegno che fu tirannico e assoluto. Margherita Ghilardi |