L'accentramento amministrativo
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Con i Decreti Ricasoli dell'ottobre 1861 si affermava, dunque, un sistema amministrativo accentrato a cui mancava, però, un'autentica formalizzazione legislativa. Sarà questa un'opera che impegnerà la classe politica nazionale nei tre anni successivi, attraverso un percorso parlamentare che si intreccerà con lo sviluppo delle vicende politiche nazionali e che produrrà, soltanto nel 1865, la legge di unificazione amministrativa del Regno d'Italia. Il 22 dicembre 1861, pochi giorni dopo l'abolizione della Luogotenenza della Sicilia, Bettino Ricasoli presentò alla Camera dei deputati un progetto che si prefiggeva di estendere a tutto il territorio nazionale, con poche modifiche, la legge Rattazzi del 1859. L'innovazione più importante, introdotta dal politico toscano, consisteva nel conferimento di una reale funzione di governo alla provincia. La commissione parlamentare presieduta da Carlo Bon Compagni di Monbello, che aveva avuto il compito di esaminare quel progetto, però, non condivise questa impostazione. Anzi, riconfermando la centralità della figura del prefetto nell'ordinamento amministrativo, chiese al Governo di impegnarsi, entro il 1863, a presentare una nuova legge organica che assicurasse “le più larghe libertà comunali e provinciali”. Il parere della commissione bloccò, pertanto, l'iter parlamentare del progetto Ricasoli. Quella proposta, tuttavia, non cadde nel dimenticatoio perché venne ripresa, in parte, dal nuovo Ministro dell'Interno Ubaldino Peruzzi, il quale vi aggiunse alcune proposte di modifica dell'ordinamento locale, come l'estensione del suffragio e l'aggregazione dei piccoli comuni. Il 18 aprile 1864, inoltre, Peruzzi propose delle ulteriori modifiche alla legge del 1859. Esse, pur salvaguardando la centralità della figura del prefetto come capo effettivo dell'amministrazione provinciale, investivano direttamente il titolo I della Legge Rattazzi, ovvero la suddivisione amministrativa del Regno e le funzioni delle autorità governative. Questa volta, il progetto di legge venne accolto positivamente dalla commissione parlamentare presieduta da Bon Compagni e dal 23 giugno venne calendarizzato nel dibattito parlamentare. Il 13 luglio, però, di fronte ad una discussione caratterizzata costantemente da voti tenuti in sospeso e da continui rinvii di articoli, un deputato dell'opposizione, Giuseppe Lazzaro, propose il rinvio dell'esame della legge. Anche Bon Compagni condivise questa proposta e auspicò che in futuro la discussione avrebbe dovuto limitarsi solamente all'analisi dei principi generali. Tuttavia, un evento esterno modificò definitivamente l'esito del dibattito parlamentare. La stipulazione della Convenzione di settembre – che prevedeva il ritiro delle truppe francesi di Roma, la garanzia dell'Italia a non invadere lo Stato pontificio e il trasferimento della capitale del Regno da Torino a Firenze – produsse, infatti, una vigorosa accelerazione della discussione sulla cosiddetta “questione amministrativa”. E l'ordine del giorno firmato da Pier Carlo Boggio, Pasquale Stanislao Mancini e Donato Cocco impegnò il governo a presentare, in tempi brevi “un progetto di legge che provveda alla più pronta unificazione legislativa e amministrativa del regno”. In questo clima politico caratterizzato dall'emergenza e dall'urgenza, il 24 novembre 1864, il Ministro dell'Interno Giovanni Lanza propose alla Camera un progetto di legge per la concessione al Governo della facoltà “di pubblicare e rendere esecutorii in tutte le provincie del Regno alcuni progetti di legge d'ordine amministrativo”. Poco dopo, l'Esecutivo presentò un pacchetto di norme – composto da un brevissimo disegno di legge a cui erano state uniti, sotto forma di Allegati, ben 6 provvedimenti – che il Parlamento avrebbe dovuto accettare o rifiutare in blocco. Il risultato finale di questo repentino processo politico-legislativo fu la promulgazione, il 20 marzo 1865, della Legge n. 2248 per l'unificazione amministrativa del Regno d'Italia che comprendeva, come già anticipato, ben 6 allegati: la legge comunale e provinciale (allegato A), la legge di pubblica sicurezza (allegato B) e di sanità pubblica (allegato C), la legge sul Consiglio di Stato (allegato D) e sul contenzioso amministrativo (allegato E) e la legge sulle opere pubbliche (allegato F). Dopo circa un mese, ad esse, si unì anche la Legge n. 2626 sull'ordinamento giudiziario del 6 dicembre 1865. Con la promulgazione di queste norme, nel 1865, si chiudeva un periodo storico importantissimo per le vicende italiane. Un periodo che sanciva, in definitiva, l'esistenza di un sistema amministrativo accentrato di chiara derivazione franco-piemontese, che si era potuto affermare sulla base di un'amplissima e controversa delega concessa dal Parlamento all'Esecutivo. L'allegatoA, che legiferava sull'ordinamento locale e provinciale, riproduceva in pieno la Legge Rattazzi del 1859, apportandovi solo poche modifiche. Il Regno d'Italia, pertanto, continuò ad essere suddiviso in quattro livelli amministrativi gerarchici: province, circondari, mandamenti e comuni. Il comune rappresentava la base dell'ordinamento amministrativo e prevedeva un consiglio comunale elettivo, una giunta municipale, un segretario comunale e un ufficio comunale. I consiglieri, il cui numero variava a seconda della popolazione, venivano eletti da quei cittadini che godevano dei diritti politici. Il sindaco, inoltre, non era una carica elettiva, ma veniva nominato, con decreto regio, fra i consiglieri comunali, e veniva scelto, dietro indicazione del prefetto, direttamente dal Ministero dell'Interno. Il sindaco rappresentava, pertanto, una figura “ibrida”, essendo, contestualmente, sia il “capo dell'amministrazione comunale” e quindi il rappresentante della comunità locale, che “un ufficiale del Governo” e quindi il delegato dello Stato centrale. La provincia, invece, era composta da un consiglio provinciale elettivo, il cui un numero variava a seconda della dimensione, e dalla deputazione provinciale, presieduta dal prefetto, e formata da membri eletti dal consiglio provinciale. In definitiva, il prefetto rimaneva la figura centrale di tutto il sistema amministrativo italiano. E non a caso, la parziale estensione del suffragio era stata bilanciata con una densa trama di controlli di merito e di legittimità affidati proprio ai prefetti, ai sottoprefetti e alla deputazione provinciale. Tuttavia, se il prefetto si collocava integralmente nell'apparato amministrativo dello Stato, la figura del sindaco, invece, stava assumendo progressivamente un carattere eminentemente politico perché costituiva un vero e proprio ponte tra la società e lo Stato. Questa figura, infatti, pur lavorando a stretto rapporto con il segretario comunale, il cui ruolo preminente all'interno degli uffici emergeva con autorevolezza proprio con la Legge n. 2248 del 1865, emergeva, sempre più, come il rappresentante principale dell'amministrazione municipale, svolgendo, allo stesso tempo, sia funzioni di indirizzo politico che di indirizzo amministrativo. Questa sorta di dualismo tra ciò che era proprio dell'ambito politico e ciò che riguardava il campo amministrativo caratterizzò, per molti aspetti, il dibattito pubblico negli anni successivi all'unificazione amministrativa. Da un lato, alimentò coloro che cercavano, invano, di elaborare nuovi progetti parlamentari di riordino amministrativo dello Stato, è il caso ad esempio di Bettino Ricasoli nel 1866 e di Carlo Cadorna nel 1868. Dall'altro lato, invece, incoraggiò coloro che attribuivano un significato politico-ideologico alla richiesta di maggiori autonomie locali e che, soprattutto, chiedevano di rendere elettiva la carica del sindaco. Non è quindi casuale che tra gli argomenti politici più dibattuti nel decennio successivo alla legge del 1865, la questione amministrativa occupasse un ruolo di primo piano, soprattutto in una chiave polemica antigovernativa. E infatti nel pacchetto di proposte di governo che caratterizzarono la “rivoluzione parlamentare” del 1876 – e che portò la Sinistra storica al governo del Paese – risiedeva, per l'appunto, la richiesta di un maggiore decentramento amministrativo. Una richiesta che, in quel contesto, assumeva, inevitabilmente, la coloritura di una battaglia di democrazia e libertà. Tuttavia, nonostante i tentativi di Giovanni Nicotera – che nel 1876 propose l'abolizione delle sottoprefetture, l'estensione del suffragio e l'elettività dei sindaci e dei presidenti delle deputazioni provinciali – gli esponenti della Sinistra lasciarono sostanzialmente inalterato il sistema amministrativo vigente contribuendo, in questo modo, a renderlo ancor più resistente al cambiamento. Bisognerà attendere l'arrivo al governo di Francesco Crispi, il 29 luglio 1887, per vedere proposta e approvata una riforma dell'assetto istituzionale dello Stato che si realizzò dapprincipio con la Legge n. 5195 del 12 febbraio 1888 e poi, per quel che concerneva l'ordinamento locale, con la Legge n. 5865 del 30 dicembre 1888. Con la prima si affermò la totale autonomia dell'esecutivo rispetto al legislativo e un maggior controllo della classe politica sugli apparati amministrativi dello Stato. Con la seconda, invece, si concedeva maggiori autonomie locali – ad esempio, i comuni con più di 10 mila abitanti potevano eleggere il sindaco – e, allo stesso tempo, si introduceva la giunta provinciale amministrativa, che rafforzava i controlli sul territorio, e si subordinava, ancor di più, l'azione dei prefetti al Governo centrale. Nello specifico, la riforma crispina degli ordinamenti locali introduceva tre importanti novità che rispondevano ad altrettante questioni rimaste inevase con la Legge del 1865. La parificazione dell'elettorato amministrativo a quello politico approvata nel 1888 permetteva, innanzitutto, di superare quella situazione paradossale per cui un cittadino poteva votare per eleggere un deputato alla Camera ma non poteva designare un membro di un'assemblea locale. In secondo luogo, l'elezione del sindaco da parte dei cittadini, rispondendo ad una richiesta sempre più diffusa negli ambienti democratici e progressisti, avviava questa figura a diventare l'autentico rappresentante della comunità municipale. Infine, l'elezione al vertice delle deputazioni provinciali di un membro elettivo – sebbene con un'elezione interna – interrompeva quella commistione, spesso biasimata, tra amministrazione centrale ed enti locali. Il dibattito pubblico sull'accentramento e sul decentramento amministrativo è un tema classico della storiografia. Una delle spiegazioni ricorrenti delle cause che hanno portato la Destra storica a scegliere la via dell'accentramento consiste in una sorta di inderogabile necessità storica per salvaguardare l'unità del Paese minacciata dalle spinte centrifughe messe in atto dai “neri” o dai “rossi”. C. Pavone,Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp.193-198.
2. Rappresentanza e amministrazione nelle leggi del 1865 La legge del 1865 conferma la presenza di Consigli comunali e provinciali entrambi elettivi i cui membri vengono designati attraverso un sistema “censitario”, espressione di una società “borghese” e “mercantile”. Questo sistema derivava da una tipica concezione dell'Ancien regime secondo la quale il diritto politico veniva sempre concepito come un “servizio”: un servizio al Re, al Reame o allo Stato. Secondo Gianfranco Miglio questa concezione è alla base degli ordinamenti del primo Stato liberale, in cui la rappresentanza amministrativa “è sostanzialmente un fatto interno della classe politica, perché elettori ed eletti sono tutti più o meno legati alla causa dei pubblici poteri”. G. Miglio, Rappresentanza e amministrazione nelle leggi del 1865 in F. Benvenuti, G. Miglio (a cura di), L'unificazione amministrativa e i suoi protagonisti, Venezia, Neri Pozza, 1969, pp. 48-54.
Secondo l'interpretazione di Ernesto Ragionieri, l'ordinamento amministrativo italiano – mai discusso e deliberato in sede parlamentare perché sempre espressione della volontà del Governo – testimoniava, innanzitutto, la netta prevalenza del potere esecutivo su quello legislativo e, in secondo luogo, indicava la continuità di un apparato statale che riproduceva i rapporti di forza dei gruppi dominanti all'interno dello Stato e della società. Anche la riforma crispina del 1888 riproduceva questo schema. Sebbene quella legge, da un lato, ampliò le basi rappresentative delle amministrazioni locali, dall'altro lato, però, ne rafforzò i vincoli e i controlli attraverso la Giunta provinciale amministrativa, la quale secondo la definizione di Saverio Merlino rappresentava una “vera oligarchia che ha nelle sue mani tutte le libertà e i principali interessi della provincia”. E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 158-169.
Molti studiosi iniziano a parlare di autonomia comunale a partire dalla Legge di unificazione amministrativa del 1865. Massimo Severo Giannini sostiene, invece, che è scientificamente sbagliato compiere l'equazione tra elettività, democraticità ed autonomia. Fino alla fine dell'Ottocento, infatti, i comuni furono enti rappresentativi non delle comunità locali ma dei notabili locali. Solamente dopo il 1912 si può parlare del comune come di un ente rappresentativo della collettività locale e soltanto dopo il 1945 il suffragio elettorale ha controbilanciato il potere prefettizio per quel che riguarda il potere normativo. In definitiva, però, secondo il giurista, la nozione di autonomia comunale rimane sempre un concetto molto approssimativo. M. S. Giannini (a cura di), I Comuni, 1967, Venezia, Neri Pozza, pp. 39-44.
5. Un pregiudizio anticentralistico All'indomani dell'approvazione della Legge del 1865 uno degli argomenti ricorrenti nel dibattito pubblico era la richiesta di concessione di maggiore autonomia agli enti locali, in particolare ai comuni. Secondo Raffaele Romanelli la vita politica del Regno d'Italia fu dominata da un vero e proprio “pregiudizio anticentralistico” che sfociava non tanto in un sentimento “democratico” quanto in una visione di “completa separazione” delle competenze tra Stato e comuni. Allo Stato sarebbe spettato il compito di sovrintendere agli interessi generali e politici. Ai comuni, invece, quelli “particolari e amministrativi”. R. Romanelli, Il comando impossibile, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 37-49.
6. Le contraddizioni del centralismo “debole” Nell'ordinamento amministrativo del 1865 si possono ravvisare alcune costanti che caratterizzeranno tutta la storia successiva del potere locale: la centralità del prefetto; il riconoscimento dell'autonomia locale nei consigli comunali; una robusta rete di controlli che faceva capo al Ministero dell'Interno; e il ruolo “paradossale” del sindaco, al tempo stesso, rappresentante del corpo locale e del Governo. Da questo ordinamento, però, scaturirà una prassi amministrativa che Guido Melis ha definito come un centralismo “debole”. Ovvero, un sistema accentrato notevolmente influenzato dai contesti locali, dalla forte frammentazione della società italiana e dal precoce indebolimento della figura prefettizia. G. Melis, Storia dell'amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, il Mulino, 1996, pp. 75-86.
7. Il prefetto e l'amministrazione periferica L'8 febbraio 1868, per rimediare alle gravi disfunzioni amministrative delle Province, il Ministro dell'interno Carlo Cadorna presenta alla Camera dei Deputati un disegno di legge sul “riordinamento dell'amministrazione centrale e provinciale dello Stato” che stabiliva una stretta connessione gerarchica tra il Prefetto – definito da Porro come “un amministratore negligente” – e le altre Autorità governative, centrali e periferiche . Ancora una volta, però, il tentativo di cercare un'alternativa valida alle scelte operate da Urbano Rattazzi, viene respinta dal Parlamento. A. Porro, Il Prefetto e l'amministrazione periferica in Italia. Dall'Intendente subalpino al Prefetto italiano (1842-1871), Milano, Giuffrè, 1972, pp. 172-186.
8. Il malcontento amministrativo e la proposta regionalista Nell'ottobre del 1870, alla vigilia delle elezioni politiche che si sarebbero svolte a novembre, Stefano Jacini e Gustavo Ponza di San Martino organizzarono, a Firenze, una riunione ristretta, con pochi invitati – tra questi Mordini, Pianciani e Corte – per discutere di decentramento amministrativo. Alla fine della riunione, Jacini e Ponza di San Martino furono invitati a “riassumere le risultanze delle conversazioni tenute” e a predisporre il programma dei lavori per i successivi incontri. Pochi giorni dopo uscì la loro relazione sotto forma di circolare. Le pagine che seguono sono una descrizione e un'analisi della proposta politica contenuta in quella relazione. A. Berselli, La destra storica dopo l'unità. Italia legale e Italia reale, Bologna, il Mulino, 1965, pp. 50-62.
9. La sinistra storica e il decentramento L'avvento al potere della Sinistra storica, attraverso la “rivoluzione parlamentare” del 1876, è accompagnato da una crescente richiesta di decentramento amministrativo regionale, soprattutto dalle forze di opposizione. Richiesta formulata, ad esempio, dagli uomini della Destra bolognese, guidati da Marco Minghetti, che richiedevano il decentramento per “la semplificazione degli affari” e “la economia delle finanze”. E poi anche dal liberale lombardo Giovanni Casnati che in un suo volume pubblicato nel 1877, Del Governo del Regno. Studi, mostra la necessità delle “istituzioni regionali” per un più “liberale” e “corretto” funzionamento del sistema amministrativo. R. Ruffilli, La questione regionale dall'unificazione alla dittatura (1862-1942), Milano, Giuffrè, 1971, pp. 113-117.
10. Crispi e la riforma dello Stato Il tema della “riforma dello Stato” è un argomento ricorrente nelle vicende pubbliche italiane, dal 1861 ai giorni nostri. Crispi concretizzò questa istanza riformatrice, essenzialmente, attraverso la legge del 12 febbraio 1888 n. 5195 che fu l'architrave di tutto il suo progetto politico. Secondo Melis, il programma riformista di Crispi ruotava attorno a due punti di riferimento: la continuità con le scelte di fondo dell'unificazione amministrativa; il perfezionamento del quadro legislativo del 1865 e la riorganizzazione degli assetti amministrativi. G. Melis, Storia dell'amministra-zione italiana (1861-1993), Bologna, il Mulino, 1996, pp. 127-131.
11. Le ragioni del centralismo in Italia In queste pagine, Romanelli ripercorre efficacemente alcune delle tappe più importanti della storia dello Stato italiano sottolineando le ragioni di lungo periodo e il quadro politico-culturale in cui si affermò un ordinamento amministrativo accentrato ma “a centro debole”. R. Romanelli, Storia dello Stato italiano dall'unità ad oggi, Roma, Donzelli, 1995, pp. 126-143. 1. Decentramento e unificazione Poco dopo l'insediamento del Governo guidato da Luigi Carlo Farini (8 dicembre 1862), Giuseppe La Farina pubblica sulla “Rivista contemporanea”, nel gennaio 1863, un saggio dal titolo “Decentramento e unificazione” in cui fornisce un dettagliato quadro d'insieme sullo stato dell'ordinamento comunale e provinciale esaltando la figura del prefetto. C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 563-572.
2. Una proposta per l'ordinamento comunale e provinciale Il 5 marzo 1863 il Ministro dell'Interno Ubaldino Peruzzi presenta alla Camera dei deputati alcune proposte di modifica della legge comunale e provinciale del 1859, in aggiunta a quelle presentate da Ricasoli nel 1861 e mai discusse in aula. Da queste proposte avrà inizio un serrato dibattito parlamentare nel 1864. C. Pavone,Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 613-617.
3. La relazione alla legge del 1865 Il 24 novembre 1864 il Ministro dell'Interno Giovanni Lanza presenta alla Camera un progetto di legge per la concessione al governo della facoltà “di pubblicare e rendere esecutorii in tutte le provincie del Regno alcuni progetti di legge d'ordine amministrativo”. Una commissione parlamentare ne esamina il contenuto e l'11 gennaio 1865 Francesco Restelli presenta in Aula la relazione finale. Di quel documento si pubblicano le osservazioni preliminari, la parte dedicata alla legge comunale e provinciale e le conclusioni. C. Pavone,Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 658-678.
4. La legge di unificazione amministrativa del 1865 Il documento riprodotto è la Legge comunale e provinciale che costituiva l'Allegato A della Legge n. 2248 per l'unificazione amministrativa del Regno d'Italia promulgata il 20 marzo 1865. Questa legge era costituita da altri 5 allegati: Allegato B, Legge sulla sicurezza pubblica; Allegato C, Legge sulla Sanità pubblica; Allegato D, legge sulla costituzione del Consiglio di Stato; Allegato E, Legge sul contenzioso amministrativo; Allegato F, Legge sulle Opere Pubbliche. Legge n. 2248 del 20 marzo 1865, in “Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia”, Torino, Stamperia Reale, 1865, pp. 417-472.
5. Il progetto riformatore di Cadorna del 1868 Il documento riprodotto è la relazione del Ministro dell'Interno Carlo Cadorna al progetto di legge sul riordinamento dell'amministrazione centrale e provinciale dello Stato che venne presentato alla Camera dei deputati l'8 febbraio 1868. A. Porro, Il Prefetto e l'amministrazione periferica in Italia. Dall'Intendente subalpino al Prefetto italiano (1842-1871), Milano, Giuffrè, 1972, pp. 374-390.
Il documento che segue è la circolare del Ministro dell'Interno Girolamo Cantelli a tutti i prefetti del Regno d'Italia. A. Porro, Il Prefetto e l'amministrazione periferica in Italia. Dall'Intendente subalpino al Prefetto italiano (1842-1871), Milano, Giuffrè, 1972, pp. 411-412.
7. Jacini e la questione regionale Riproduciamo alcuni brani estratti dal volume di Stefano Jacini Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dopo il 1866 pubblicato nel 1870. L'opuscolo, che si presenta come una “Lettera agli elettori di Terni del loro deputato dimissionario” – Jacini, infatti, era stato eletto alla Camera nel collegio della cittadina umbra nel dicembre 1868 e si era immediatamente dimesso dopo la sua convalida, il 16 gennaio 1869 – alimentò un dibattito ventennale sull'assetto istituzionale dello Stato unitario e sul ruolo delle regioni. Molti dei suoi ex colleghi della destra, come Ruggiero Bonghi, lo criticarono duramente. Jacini, La riforma dello Stato e il problema regionale, a cura di F. Traniello, Brescia, Morcelliana, 1968, pp. 63-69; 106-110; 126-136.
8. Le condizioni delle province napoletane Il brano riprodotto è una parte degli “appunti di viaggio” di Leopoldo Franchetti compiuto in Abruzzi e Molise nell'autunno del 1873 e pubblicati nel volume dal titolo Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane edito, a Firenze, nel 1875. L. Franchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane, a cura di Antonio Jannazzo, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 32-43.
Il documento riprodotto è un estratto del discorso di Agostino Depretis, svolto a Stradella l'11 ottobre 1875, in cui annunciava il programma di governo della Sinistra, tra cui il decentramento amministrativo. L. Lucchini, La politica italiana dal 1848 al 1897: programmi di governo, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, pp. 543-551
10. Minghetti: Decentramento e regionalismo L'11 marzo 1880, Francesco De Sanctis, in un pubblico comizio, condannò la grave situazione di corruzione in cui versavano le istituzioni pubbliche e criticò l'onorevole Marco Minghetti per aver strumentalizzato un suo articolo apparso sul giornale Il Diritto. Minghetti rispose a De Sanctis pubblicando, nel 1881, il saggio I partiti politici e la pubblica amministrazione dove affrontò il problema dell'ingerenza dei partiti nella macchina statale. Di quello scritto ne riproduciamo alcuni passi. M. Minghetti, I partiti politici e la pubblica amministrazione, a cura di Bruno Widmar, Bologna, Cappelli, 1969, pp.60-64 e 105-128.
11. Un tentativo di riforma di Depretis Il documento che segue è uno stralcio del progetto di riforma dell'ordinamento locale presentato da Depretis alla Camera, nel 1886, nel corso della XVI Legislatura. Lo stesso disegno di legge era già stato presentato dal leader della Sinistra il 25 novembre 1882 ed esaminato da un Giunta parlamentare presieduta da Antonio Di Rudinì nel 1884. La fine della XV Legislatura, però, ne aveva impedito la discussione alla Camera. Atti del Parlamento Italiano, n. 57, Camera dei Deputati, Legislatura XVI, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati,1886, pp. 3-11.
Il documento riprodotto è la Legge n. 5865 promulgata il 30 dicembre 1888, che apportava alcune modifiche alla Legge 20 marzo 1865, n. 2248/1865, Allegato A. Legge5865 del 30 dicembre 1888, in “Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia”, Torino, Favale, 1888, pp. 5883-5892. |